Una discesa agli inferi. La civetta cieca di Sadeq Hedayat

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La civetta cieca di Sadeq Hedayat, romanzo pubblicato da Carbonio Editore con la meritevole traduzione dal persiano di Anna Vanzan, è una gemma nerissima della letteratura del Novecento. In questo testo, enigmatico e complesso, confluiscono più mondi, più tradizioni.

Appartenente ad una famiglia aristocratica, Sadeq frequentò un liceo francese a Teheran per poi trasferirsi in Europa e successivamente in India. Di carattere schivo, disinteressato alla militanza politica ed all’impegno civile diretto, Sadeq fu essenzialmente un uomo di lettere versato nella scrittura, nella traduzione e nella difesa della cultura persiana, di cui amava anche la componente popolare, folklorica, da lui considerata un elemento vivo, posto polemicamente in opposizione agli irrigidimenti dottrinari dettati dal clero. Durante il suo soggiorno a Benares si avvicinò al buddismo e nel 1936 La civetta cieca fu dato alle stampe a Bombay. Con la caduta di Reza Shah Pahlavi, primo Scià di Persia, costretto ad abdicare nel 1941 nel pieno della seconda guerra mondiale (lo Scià, modernizzatore in campo economico e abituato a governare col pugno di ferro, si era allineato alla Germania nazista), l’opera poté finalmente circolare in Iran, nuovo nome attribuito alla nazione solo pochi anni prima. Nel 1951 Sadeq, quarantottenne, si suicidò a Parigi, la città dove aveva respirato l’esistenzialismo, studiato il simbolismo e, soprattutto, affinato la conoscenza dei grandi autori occidentali. L’impronta di Edgar Allan Poe, Fedör Dostoevskij e Franz Kafka, affiora, come puntualizza nell’introduzione Anna Vanzan, nella tecnica narrativa dello scrittore persiano.

La civetta cieca è un romanzo impregnato di morte. La trama è allucinatoria, impossibile da svolgere in un senso compiuto. Nell’antica città di Rey c’è un uomo senza nome che dipinge scatole portapenne e che racconta, in prima persona, di sé: una maledizione, tanto simile a un’infezione, lo ha invaso, colonizzandolo come un parassita. Egli è la sua stessa infezione. “Scrivo unicamente per la mia ombra, che si allunga sul muro seguendo la luce della lampada: è a lei che mi devo presentare”. La sua percezione della realtà è alterata dai fumi dell’oppio, distrazione e cura per i tormenti che lo pervadono.

Un giorno, l’artista riceve la visita di uno zio proveniente dall’India. In casa il protagonista non ha nulla da offrire, salvo una bottiglia di pregiatissimo vino, nascosta sulla mensola più alta di uno scaffale. Lassù, incastonato nella parete, si apre, inaspettato, un lucernario. Attraverso la fessura si palesa la visione di una giovane donna, “occhi allungati alla turcomanna, dotati di una lucentezza soprannaturale e intossicante”. Le sue forme sinuose, avvolte in un abito nero aderente, risvegliano nell’uomo “la passione amorosa della mandragora”. Un rivolo d’acqua separa la danzatrice, dalle fattezze e movenze inequivocabilmente indiane, da un vecchio gibboso. Il fiume è invalicabile ai passi di lei. L’anziano prorompe in una risata infernale e la malìa si spezza. L’istante epifanico, di pura estasi, imprime un sigillo nell’animo dell’uomo. “Tutto mi sembrava familiare, come se le nostre due anime si fossero già incontrate in una vita precedente e, condividendo la stessa sostanza e appartenendo alla stessa origine, fossero destinate all’inevitabile unione”.

La civetta nella tradizione persiana è un uccello di malaugurio. Molte civiltà la associano alla morte, a partire dagli antichi Egizi. Per i cristiani è un animale tendenzialmente funereo. Il medioevo europeo ne ha fatto la compagna prediletta delle streghe. Tuttavia, in antitesi alle connotazioni nettamente negative, per la cultura greca la civetta è sinonimo di consapevolezza e di ordine. Scrive lo storico Franco Cardini: “La sua capacità di vedere al buio diviene un simbolo della sapienza, della chiarezza d’idee, dell’intelligenza razionale che discerne là dove altri scorgono soltanto ombre e tenebre. Il suo nome greco è peraltro glàux, ‘la rilucente’, grazie ai suoi occhi lucenti come la luna che riflette la luce del sole. Il suo vegliare nella notte è paragonato, da allora in poi, al vegliare del saggio; il suo grido lamentoso tende a non venire più inteso come presagio funesto, ma come ammonizione tesa a rammentare la brevità della vita, ma anche a confortare, annunziando la prossimità dell’alba” (https://aispes.net/biblioteca/il-giardino-dei-magi/la-civetta/). Nel romanzo altamente simbolico di Sadeq Hedayat si riscontra tale dicotomia di significati. Lo stato di cecità, privazione sensoriale invalidante, rimanda, attraverso l’ovvia figura di Omero, all’immaginario sopito dell’Occidente ed evoca la potenza del narrare. Il protagonista, che a tutti gli effetti incarna la civetta, scende agli inferi e svela le sue cicatrici. L’infelicità è trasformata in vigile allucinazione da una sensibilità che tutto replica e deforma.

“Mi alzai dal mio tavolo di lavoro e andai lentamente verso di lei; pensavo fosse viva, che fosse tornata in questo mondo, che il mio amore avesse soffiato in lei l’alito della vita. Ma quando le fui più vicino percepii l’odore della morte, il lezzo della carne in decomposizione. Sul suo corpo si agitavano piccoli vermi, mentre alla luce delle candele scorsi due bombi dorati che le ronzavano intorno. Era decisamente morta. Ma allora come mai aveva aperto gli occhi? Era stato un sogno o era veramente accaduto? Non lo sapevo”. Non sappiamo se Nick Cave abbia mai letto La civetta cieca, ma di certo il romanzo di Sadeq potrebbe essere per lui ricercata fonte di ispirazione. Chi è questa donna che, al termine di una notte di nebbia, si para nei pressi dell’uscio di casa del narratore e poi, una volta distesa sul letto, avvolta in un sudario di muta e cupa lascivia, misteriosamente muore? È davvero la medesima danzatrice ammirata dal lucernario? La Sgualdrina, personaggio che compare nella seconda metà dell’opera, ne è la reincarnazione? Sadeq accarezza le corde del perturbante. In questo episodio, sconcertante anche per il lettore contemporaneo, il protagonista si congiunge all’Amata ormai ridotta a freddo cadavere, Amata che gli aveva consegnato corpo e anima. Morbosità? Gusto per il macabro? L’autore fa sua la lezione degli indagatori dell’inconscio e dei maestri dell’irrazionale. Altre suggestioni riemergono dallo scrigno delle sue vaste conoscenze. L’Assoluto è irraggiungibile, l’Amore riposa su uno iato non sormontabile. Sadeq omaggia e interpreta la lezione del suo adorato Omar Khayyam (XII secolo), cantore della transitorietà della vita e della necessità dell’ebbrezza, punto di congiunzione lirica tra misticismo e materialismo.

Un’angusta stanza, tanto simile a una zona rossa dalla quale non si esce, soffoca tra le sue mura i giorni infausti del protagonista, marchiati da una negazione ostinata e perenne. “Nonostante fossimo fratelli di latte fui costretto a sposarla per mantenere intatto l’onore della sua famiglia, perché lei non era più vergine… e come avrei potuto? Me l’avevano data a bere. La prima notte di nozze, quando rimanemmo soli nella camera da letto, nonostante la supplicassi in tutti i modi, non si concesse a me, non si tolse nemmeno i vestiti”. La Sgualdrina non dissimula i suoi vizi osceni, consumati con uomini di infima reputazione. Lo scherno alimenta la vergogna, il desiderio frustrato si mischia al rancore, il rimorso pungola l’istinto di vendetta. “Ormai la mia esistenza era stata ingoiata dalla mia gola e io non ero altro che la sua malsana evidenza”.

Affondata tra i bassifondi dell’abbruttimento coatto, la coscienza allucinata del malcapitato esplode in un caleidoscopio di cangianti fantasmagorie. Una mente in subbuglio, incapace di riparare nella rada della rassegnazione, rielabora il trauma ripetendolo all’infinito. Come in natura, dalla malattia nasce qualcosa di nuovo. I sogni imbevuti d’oppio ricalcano un andamento a spirale. Su questo scivolamento onirico Sadeq innesta una narrazione ipnotica, seducente, angosciosa. Le circostanze, i contesti, i dettagli di una vita intera ritornano con cadenza ossessiva, sempre trasfigurati in segni, sogni e sintomi. I fiori violacei della calistegia, le montagne dal profilo intagliato, il fiume dell’infanzia (spartiacque tra la pace dell’innocenza e il comando dell’attrazione), le monete stipate nella tasca, le bizzarre casette geometriche, la bottiglia di vino/veleno, la scatola di latta, le ombre proiettate sul muro, la risata beffarda… Modi, attributi e caratteristiche si sovrappongono in un carnevale di maschere; la cognizione del dolore trova provvisorio conforto nelle illusioni della droga o tra le braccia della compassionevole Tata. Verità o illusione consolatoria? Vivido è lo sdegno per le pratiche del detestato macellaio: il buddismo aveva infatti rafforzato le convinzioni vegane e animaliste già presenti in Sadeq.

La civetta cieca mette a fuoco uno dei sentimenti capitali della condizione umana, la paura. “In questo letto madido di sudore, quando le palpebre si facevano pesanti e bramavo di consegnarmi alla non esistenza e alla notte eterna, tutte le mie rimembranze perdute e le paure dimenticate riprendevano vita: paura che le piume del cuscino potessero trasformarsi in lame affilate; paura che i bottoni del mio pigiama s’ingigantissero come macine di mulino; paura che la briciola di pane caduta per terra si tramutasse in una scheggia di vetro; paura che, addormentandomi, l’olio della lampada si spargesse sul pavimento finendo per bruciare l’intera città…” Già, il terrore può rinviare a qualcosa di indefinito… Nessuno può escludere che un particolare, all’apparenza anonimo, contenga tracce di altro. Il protagonista, in definitiva, è oggetto dei suoi incubi ed è pensato dai suoi demoni interiori. Assomiglia ad un altro uomo, Josef K, e gli si potrebbe ritagliare addosso una definizione: “è assolutamente persuaso che stia accadendo qualcosa, ma non ha una piena comprensione degli eventi. Osserva le cose molto, molto attentamente, poiché tenta di farsene un’idea. Potrebbe esaminare lo spigolo di quella scatola di torta solamente perché si trova sulla linea del suo sguardo, e si chiederebbe per quale ragione si è seduto in un punto dal quale quell’oggetto si presenta in quel modo”. Il passaggio è estrapolato da un’intervista a David Lynch a proposito del suo primo lungometraggio, Eraserhead. È probabile che una testa debitamente mozzata e spiccata dal corpo compaia anche ne La Civetta Cieca. Il lettore è avvisato.

Sadeq, di nobili origini, guardava ai reietti. In essi i vizi risultavano più autentici, più puri, non assorbiti dalla clericale ipocrisia, non occultati sotto la pesante stoffa delle tonache (nel regno dello spirito non si ride né si sorride, è solo triste, scriveva Jean Genet in Notre-Dame-des-Fleurs). La Civetta Cieca è un’opera sentita nella carne e nella mente. Perdersi nei suoi meandri di poetica bellezza è un’esperienza scomoda, affascinante e perigliosa. Vieni a bere con noi / il vino di Rey / se non ora quando? Tu assassino, tu prostituta, tu vecchio rigattiere, cosa aspetti?

Alessandro Vergari

(Sadeq Hedayat, La civetta cieca, Carbonio Editore, 2020, traduzione di Anna Vanzan)

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