L’arte oltre i sensi. Vedere l’invisibile con Donato Di Poce

Con Poetiche dell’Invisibile, testo pubblicato dai Quaderni del Bardo Edizioni nel 2020, Donato Di Poce aggrega in un unico corpus una serie di articoli, saggi, testi di critica, raccolte, taccuini scritti e commentati nel corso dell’ultimo decennio, in precedenza proposti al lettore in forma di e-book. Il volume è tripartito: la prima parte è dedicata alla Pittura, la seconda alla Fotografia, la terza passa in rassegna il lavoro di scultori contemporanei particolarmente cari all’autore. Il filo che tesse le pagine è, appunto, l’invisibilità. L’artista, poeta e fotografo ciociaro, da sempre votato all’azione creAttivita e all’impegno civile (“un grande esploratore dell’animo artistico e non solo”, secondo il giudizio di Mauro Rea), chiama a raccolta le sue amicizie, frequentazioni, passioni, amori culturali, disseminando tra le pagine idee, concetti, emozioni, epifanici lampi di verità, sotto il nume tutelare di Paul Klee, genio che aveva indicato all’arte la strada dell’invisibile.

Nella nostra epoca, satura di immagini cieche, schiacciata dalla massificazione, gonfia di posticcia pienezza, l’invisibilità assume un rilievo fecondo e polemico. Non a caso, Donato Di Poce, nell’introduzione, rivendica il legame essenziale tra gli autori da lui trattati e la poesia. Cosa significa vedere l’invisibile, se non evocarlo, esortarlo, vuoi in forme liriche, vuoi nel tratto artistico? Fare arte, nel senso di essere artisti, fuori dai circuiti commerciali, è oggi un atto di rivolta, che solletica le corde dell’autenticità. L’arte di cui parla l’autore nelle varie sezioni del  libro corrisponde a un’esperienza di margine, di scarto, di imperfezione, ad uno scavo profondo sotto le macerie della mercificazione. La resistenza alla banalità e la conseguente riscrittura del quotidiano passa attraverso il gioco immaginativo, il sogno lucido, la metafora allusiva, l’accostamento provocatorio, la reverie trasfigurante, il richiamo al perturbante, il graffito urbano destabilizzante. Gli artisti presi in esame da Di Poce sono “sempre in dialogo tra materia e sogno, tra immagine e segno, tracciando pa￾raboliche estetiche sull’invisibile di grande respiro etico”.

Nel saggio critico che inquadra, in una prospettiva storico-filosofica, il volume, Sergio Ragaini convoca le materie più disparate, tutte accomunate da un destino di frattura, di violenza perpetrata a secolari certezze. L’illusione naturalista è radicata in noi. Vediamo il sole tramontare e tuttavia sappiamo che il sole, fisso rispetto alla Terra, non tramonta mai. Albe e tramonti sono convenzioni linguistiche necessarie, punti cardinali dell’esperienza che ci ancorano alle abitudini. La ragione ci dice che la verità è altrove. Molte, ad esempio, sono le verità matematiche, le geometrie, le possibili rappresentazioni della realtà. Lobacevskij e Gödel sfidarono il senso comune, Bohr e Heisenberg ruppero la quarta parete della scienza, coinvolgendo l’osservatore nell’esperimento, l’astrofisica ipotizza un universo composto in larghissima parte da materia ed energia oscura. Freud scoperchiò la pentola bollente dell’inconscio. E l’arte? A partire dalla fine dell’Ottocento e con evidenza iperbolica nel Novecento, l’arte sorpassa il linguaggio classico figurativo, mentre l’artista creatore incarna e insieme interpella la dimensione invisibile. Scrive Ragaini: “la realtà artistica è la materializzazione di un sogno, e lo scopo di chi studia arte è quello di  ricostruire l’atto creativo della mente, il modo con cui materializza i sogni”.

Poetiche dell’Invisibile rompe ogni gerarchia precostituita e accosta geni immortali a maestri attuali. Ciò che conta, a prescindere da scuole e collocazioni, è l’adesione a un sentimento, a una prospettiva, a un mood che traduce l’invisibile in segno, l’ineffabilità in presenza. Di Poce commenta così la poetica di Achille Pace, protagonista dell’Arte astratta-informale internazionalmente riconosciuto, ormai quasi centenario: “l’operazione mentale che sottintende a tutto il la￾voro di Pace e alla sua poetica del ‘filo’, credo sia la connessione, l’unione degli opposti, la ricucitura di un mondo  diviso e strappato dal dolore e dalla storia, in cui l’artista cerca  di portare con i suoi simbolismi e astrazioni, orizzonti  simbolici e poetici sino ad allora inusitati”. Arte, vita e civiltà strettamente collegati nella visione unica di un maestro capace di coniugare “leggerezza ed energia lirica” e di schiudere dal pugno della creazione una “carezza cosmica”. A proposito di Gaetano Orazio, accostato a Giacometti per il saper esprimere nelle sue opere “la forza dell’Uomo come migrante e passeg￾gero della terra”, Di Poce sottolinea un atteggiamento verso la materia e i colori “addirittu￾ra religioso, liturgico, alchimistico”, in quanto “la materia e il colore diventano nelle sue mani strumenti e medium di bellez￾za, emozione materica( ridando vita a porte, finestre, pallets industriali, tronchi d’albero, manichini etc…), in una sorta di cannibalismo estetico che tutto divora e tutto trasforma, ridando vita all’invisibile”. I commenti di Di Poce accarezzano l’esperienza estetica e ricuciono discorsi artistici affini/divergenti in continuo svolgimento dialettico, sempre rigenerati dal pensiero poetante e dall’azione soggettiva.

Specifica attenzione è rivolta dall’autore ai cosiddetti Taccuini d’artista, discreti, preziosi testimoni della germinazione di un iter creativo. “Giulio Crisanti utilizza negli anni ogni tipo di supporto carta￾ceo su cui appuntare le sue illuminazioni o fare le sue  prove, dalla carta per telescriventi, ai rotoli di fax, dai  biglietti di cinema agli inviti per le mostre, ai fogli di  quaderno a quadretti dei figli, al frammento di un gior￾nale strappato”. Di Poce si spinge indietro nel tempo, tocca il Rinascimento italico e si sofferma su Leonardo da Vinci, immenso genio celebre per i suoi taccuini densi di “disegni preparatori, progetti e sinopie”. Leonardo, mette in evidenza Di Poce, documentavail suo “journal intime” o come li chiamava lui i ‘moti dell’animo’. L’invisibilità è estratta dal caos, liberata dall’informe, disincagliata dall’oscurità, accolta sulla carta, accomodata con tratto da maestro, fissata per sempre. Attraverso i suoi cahiers, Picasso operava “l’esperienza estetica suprema e assoluta, ovvero documentava a se stesso e al mondo, la rivela￾zione della genesi della propria creatività; la conoscenza  e la rivelazione della sua intimità”.

Le stanze di Massimiliano Sarti, scrive Di Poce, “comunicano un’urgenza espressiva es￾senziale e scabra, dove il segno avvolge il vuoto e rive￾la figure e oggetti intravisti e immaginati in penombra, perimetri di attraversamenti e relazioni esposte solo alle radiazioni emozionali ed esistenziali che urgono e toc￾cano il cuore vero delle cose”. Ogni artista ha il suo altare, il suo tempio delle forme. Qualcuno glorifica la creatività della natura cercando di sprigionare uno speciale incantesimo con le pietre. È lo Stone Balance, espressione artistica in cui eccelle Carlo Pietrarossi, che così commenta:“L’attimo in cui la pietra si ferma  nell’equilibrio… nel momento c’è la sorpre￾sa, l’accoglienza, ci si allontana per guardare con rispet￾to e si è colti dall’estasi, è dipendenza!”. La fotografia fissa l’opera e la strappa all’accidentalità del momento. Nei suoi Paeviaggi, FrancoColnaghi, interprete di “stratificazioni emozionali, cam￾piture astratte di ricordi, intuizioni e sogni”, entra dentro la natura per dipingere “essenze e vaporizzazioni di tra￾monti, piogge ancestrali e paesaggi lunari e metafisici”, uscendone quindi “contaminato e purificato quasi in un lavaggio salvifico dell’anima”.

Anche le mostre trovano spazio nella riflessione sull’invisibile di Di Poce. Gli artisti di Terrae Motus, “hanno coscienza che come la forma rivela il vuoto, così l’astrazione o l’assemblaggio materico tridimensionale sono una ‘rottura’ formale ed estetica che rivela l’armonia interiore, una genesi costruttiva a volte colta nello stato iniziale e primordiale, altre volte sedi￾mentata nel colore nei segni e nella materia in cerca di quella relazione inconscia e primordiale con l’assoluto”. È sempre un rimestare tra i solchi del caos, tre le onde magmatiche portatrici di rivelazioni. L’Arte, chiosa l’autore, è invenzione, tutto il resto è mestiere… Libera e selvaggia, la vera Arte non conosce padroni e supera le incrostazioni accademiche, spazza via le cattedre tronfie di retorica. Così, il padiglione kuwaitiano dell’Expo 2015, magicamente sospeso tra il deserto e il silenzio, tra il materico e l’ancestrale, presenta opere in “sapiente equilibrio di tecnica e di valori, di segni e di colori”, frutto del lavoro disette interpreti della CreAttività che sanno “guidarci in una sorta di viaggio non solo estetico, ma anche esperienziale e di sonnambulismo ipnotico”.

L’articolo su EroticaMENTE, rassegna curata da Eva Cheryl traboccante di un Eros che abbraccia “una concezione ben lontana dal semplice uso ed espo￾sizione del corpo nella società contemporanea, che ra￾senta spesso la pornografia e lontanissima dalla ricerca di una nuova ARS AMANDI o dell’intimità e verità  esistenziale ed estetica”, è un excursus critico sull’erotismo, sulla sensualità nell’arte e nella letteratura, a partire dai grandi cantori del corpo, Bataille, Henry Miller, Anais Nin, fino ad esondare nel campo della pittura, solo per fare alcuni nomi tra i molti citati dall’autore, con Courbet, Schiele, Modigliani, nel fumetto con Manara e Crepax, nella fotografia con Mapplethorpe e Araki, senza dimenticare il nostro “Rinascimento Erotico” e, ovviamente, il surrealismo.

Dentro ad ogni immagine realizzata, c’è sem￾pre un’immagine interiore, un’immagine mentale, un’icona che ci accompagna anche quando l’oggetto della nostra  visione non è più (o non è ancora) sotto i nostri occhi”. Donato Di Poce, nello stigmatizzare l’imperante “analfabetismo Visivo”, chiede l’intervento di una nuova ecologia della mente che opponga la complessità del vedere alla banalità del guardare. Il grande critico John Berger sosteneva che una foto, a differenza di qualsiasi altra immagine visiva, non fosse una riproduzione, un’imitazione o un’interpretazione del soggetto, ma una sua traccia. Nella fotografia si può riscontrare una valenza relazionale. Uno scatto fotografico, afferma Di Poce, mette in risonanza l’interiorità con il mondo esterno, è la “possibilità di scrivere in silenzio lo stupore di mondi clandestini, la bellezza delle cose invisibili”. E ancora: “non è un’arte retinica, ma un’arte concet￾tuale, sa che non è l’occhio che vede, ma è la mente che vede e vuole essere vista attraverso l’occhio”. Fotografia, inoltre, è scolpire la luce, o, il che è lo stesso considerato il legame fisico luce-tempo, scolpire il tempo.

Di Poce accompagna il lettore in questo viaggio tra le pieghe del visibile/invisibile con sue personali poesie e fotografie, concrete testimonianze di una straripante vitalità artistica. “La fotografia ci ricorda incessantemente / Di quanto siamo ciechi / Di quanto le immagini ci vivono accanto / Senza che noi le riconosciamo”. Le foto selezionate svelano una prossimità con la pittura e con la musica, incantano e sfuggono, si sedimentano nell’animo e interrogano l’immaginazione, rimandano a un Altrove della durata di un lampo. Negli  scatti, le ombre e le nere silhouette stampate sui muri indicano un Altrove, sono segnaposti di un’essenza/assenza ed accessi a una verità indecifrata che sfida lo sguardo.

Donato Di Poce, infine, tesse la trama tra invisibilità e scultura affrontando gli artisti a lui cari, consegnandoci una costellazione di piccoli, mirabili saggi: le poesie scolpite di Sonia Scaccabarozzi, la sabbia del tempo di Fausta Dossi, i microcosmi trascendentali di Alberto Gallingari, i calchi mistici e antropologici di Tiziana Cera Rosco, i lavori sulla traccia del nulla e dell’assoluto di Carmen Corsitto, l’atelier tantrico-catartico di Bruno Freddi. Una nota a parte merita il capitolo AXUM e Il respiro del mondo dedicato a Federico Gismondi, artista poliedrico i cui taccuini, ancora una volta, affascinano Di Poce. “Per concludere questi appunti sulla pittura di Gismondi  direi che in questi ultimi lavori, la coscienza morale e  la tensione etica e culturale dell’artista si manifestano  ancora una volta in tutta la loro pienezza e coerenza,  continuando da una parte a costruire ponti culturali tra  popoli ed etnie diverse, dall’altra a denunciare il clima di intolleranza che dall’una e dall’altra parte oggi affiorano con tutta la loro barbarie”. Non c’è vera arte che non contenga in sé i dolori e i destini del mondo. Donato Di Poce, artista, occorre ribadirlo, di autentico impegno civile, ha riversato nelle Poetiche dell’Invisibile la sua sincera fiducia nelle umane possibilità, nel creare, nel fare poetico, nel costruire universi di senso.

Alessandro Vergari

(Donato Di Poce, Poetiche dell’Invisibile, I Quaderni del Bardo Edizioni, 2020)

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