Maria Grazia Insinga. La parola che c’è

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Non ci sono virgole né interpunzioni. O lettere maiuscole. C’è, ma solo di tanto in tanto, qualche punto interrogativo. Luogo dimentico e memorabile. Epopea della parola e del suo spazio nomade. Richiedente. E alieno al suono distinto. Un rumore bianco. Un idioma nascosto. Nessuna metamorfosi. Questa volta la poesia è Logos dell’apparizione. Un infinito areale. Un’intesa di posidonia e di unicorni. Ippocampi e falene. Sirene. O altre creature di estro. Una dottrina cardinale di uva dorata e sempre una mancanza.

Una deviazione. Un salto. Una screziatura. Una linea di fuoco. Perché la scrittura è sempre da risolvere. Sudore e pericolo. Vuoto. Maniera disseccata e inutile. Il pianeta è perfetto sto per/sto per morire e tu parli parli. Perché la parola è torbida. È luce. Ha un incavo impossibile. Una differenza troppo estesa. Un mare aperto e un nido. Ora è troppo leggibile. Dopo è carne e il poeta carnefice. Oltre è fuga. Anche schianto. Gioco di parole e lingua deflagrata. Implosa.

Deserto. Finezza della fine. E confine. Limbo dove può emergere più vera e fendente.

Misteriosa e sibillina. Oracolare, ma anche osmotica. Colta. Quella di Maria Grazia Insinga è una poesia finalmente “piena”. Non riducibile ad altra realtà che alla sua stessa densità. Fondatezza. Non significante ma essenziale. Qui non c’è niente che riporta il dire ma/l’essere qui l’essere non è segmentato e/frantumato ma ingoiato e questo è/un atto di cannibalismo. Canto puro ma seducente. Strumento che con una mano guida e l’altra spinge la stesura dell’aria. Dell’inudibile e dell’indicibile.

Fono tremendo della parola, la poesia è dunque voce e libro. Sapienza abissale di un reale che è ciò che si profila nell’apparire inatteso di una somiglianza, di un rimando, di una tonalità, di un corpo o lettera che rimanda a una musica a un colore a una geografia immaginaria come ai decisi benché sommessi riferimenti alla filosofia. Parmenide. Eraclito. O ai più evidenti quanto illustri mentori o maestri. Blanchot. Jabès. È la stessa scrittura, quindi, a dover essere ciò che essa può solo pensare per difetto. Per erranza. Per sottesi riferimenti a una materia per sua stessa natura paradossale.

L’universo si pensa attraverso il vuoto che rimane da pensare, scriveva Jabès. L’ineffabile pensare. La vastità di ogni vertigine nella “sovranità della creazione.” Ovvero, questo prezioso volume che è Tirrenide, Maria Grazia Insinga, (Anterem Edizioni, 2020).  L’opera è divisa in sei parti. Ognuna con un titolo. Le Tuffatrici. Il Vuoto. La Recreazione. Il Buco. Il Sonno. L’Intero. Chiude il volume, un’accurata e pregevole postfazione di Antonio Devicienti.

Tuttavia, ciò che colpisce subito, e si è presi all’istante, sono quelle semplici parole che trapassano la pagina e diventano immediatamente solenni, quasi sacerdotali. Maestose. O imponenti: nessuna dedica all’altra. Si gira la pagina e s’inizia: sotto una lingua a rullarne un’altra. L’ambito è disegnato. Il corno magico del linguaggio si mostra in tutta la sua luminescenza oscura. Un tuffo e si è già nella voragine dell’acqua: fra il cupo saturno e il sole/persa la testa cognizione di tempo e mare.

 E fin da ora è l’avvinco del domandare. L’altra poesia. O il limite: dove sono le cose/quando non ci sono? È appena l’impianto, ma siamo già nelle maglie del pensiero e della bellezza. Le pietre appena leggibili, gli emisferi che ribollono. La musica come un refuso mistico e il tacere. Lo spargimento di pettirossi e l’inevitabile dunque della realtà. O di che altro? Bisogna ricreare la natura, pur sempre la stessa e dalla stessa distanza. Tutto può accadere e il nulla accadeva tutto insieme e si disponeva in forma ora/di porta ora di conchiglia. Il tempo. Non la nostalgia.

L’apparire, in pratica. In quel tempo che è luce salina e assurda. Mare. Megera cattiva. O stanza accanto. Parola ripetuta. O ripetizione dell’essere. La forma che rompe l’albore. E ricordo di spazi. Qual è la tua ora/dove dormi? Qui la poetessa gioca con Gino Scartaghiande. Siamo nella rogna dell’eternità. Subitamente mancanti e feriti. Una lacerazione è la possibilità del libro. La non perfezione del compimento che ha la forma del buco, dell’assenza e della rovina. Del tutto uguale a sempre. E, dunque, il vero pensiero. Il torpore del sonno. Dove io regno, dice Jacqueline Risset.

Come se l’agire significasse il cessare di agire. E al risveglio tutto è lì e tutto è/come sembra e ripopola tirrenide. L’uno dell’intero. La manovra e la struttura del linguaggio. La voce e il libro sono la stessa cosa. Il linguaggio si chiude nella sua massima apertura che è il libro. La parola e le sue dissimili forme di evoluzione. Finalmente un linguaggio con un ordine preciso verso il vuoto e la sapienza. Verso il disordine epicentrale e punto che non esiste né per numero né per dimensione. Una poesia che ritorna alla terra per risalire. Voce primaria e oratrice secondaria. Flusso sbilenco e landa solitaria. Gioia. E un unico eccelso buio. Era in era è e siamo/l’intero.

Una bella raccolta che non può non farci sperare, come diceva Blanchot, nell’inafferrabile e nell’irregolare. E di questo siamo grati a questa splendida e sirenica poetessa.

Salvatore Marrazzo

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