COLOMBO E GEROSA: PRANDINO, L’ALTRO VISCONTI

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Curato dal regista Corrado Colombo e dal critico Mario Gerosa, Prandino, l’altro Visconti (uscito per le edizioni de Il Foglio) è una raccolta di saggi che finalmente si incarica di illuminare il mondo poetico di Eriprando Visconti, cineasta inquieto, laterale e sostanzialmente rimosso.

Eriprando, Prandino per gli amici, Visconti era un uomo dal nome ingombrante (suo zio è proprio quel Visconti) e un autore dalla filmografia tutto sommato esile: nove film in vent’anni: dal 1962 di Una storia milanese al 1982 di Malamore. Il cinema italiano è un oceano profondo dal quale non di rado emergono resti di civiltà ignorate che, una volta tornate alla luce, colpiscono per la loro unicità. Se ci allontaniamo dai sentieri battuti dai giganti, così grandi da essere giocoforza sotto gli occhi di tutti, ci imbattiamo in cineasti dall’ispirazione sbilenca, a volte compromessi con le forme più popolari del nostro cinema ma praticate con un’originalità difficile, spesso impossibile da ignorare. È il caso di nomi come Cesare Canevari o Paolo Cavara, per limitarci al giro di anni in cui anche Visconti è in attività. Certo, a differenza di questi ultimi Prandino Visconti esordisce nell’ambito di un cinema che si vuole e si percepisce autoriale, patrocinato da Ermanno Olmi e battezzato dal Premio della critica a Venezia ma i capitoli della sua produzione fino al 1976 de La orca lo qualificano come uno sperimentatore, un artista deciso prima di tutto a mettere alla prova il suo talento. La monaca di Monza (1969), Strogoff (1970), Il vero e il falso (1972) e Il caso Pisciotta (1972) sono un bel catalogo di tentativi, incertezze, straordinarie intuizioni, aristocratiche velleità e controllati manierismi. In questo primo troncone di filmografia ci sono molte cose: l’attenzione alla ricostruzione storica e alla minuzia scenografica, evidentemente tara di famiglia, un’impaginazione visiva di consumata professionalità, la disponibilità al dialogo con i classici, il cedere all’impegno civile e l’apertura al genere. Il vero Prandino però, mi sembra, emerge appunto nel 1976 con La orca, sorta di noir lombardo (nello stesso modo eretico in cui possiamo considerare un noir Nebbia al Giambellino di Testori) e gioco al massacro fra una ragazza di estrazione alto-borghese e i suoi rapitori proletari (e uno in particolare, interpretato da un giovane e preciso Michele Placido, addirittura sottoproletario e a malapena inurbato). Un film cupo e disturbante, in cui la definizione sociale della protagonista non viene mai mostrata esplicitamente (lo sarà abbondantemente nel seguito Oedipus Orca, girato l’anno seguente) ma lasciata incombere e quindi deflagrare come deus ex machina: la ragazza ucciderà il suo rapitore, peraltro coperta dalla polizia. Sono anni in cui il cinema italiano racconta un amore concentrazionario, le relazioni fra i sessi intese come esercizi di potere, giochi di gatto col topo. I coevi Il portiere di notte di Cavani e Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, si muovono, pur con urgenze diverse, nella stessa direzione. La metafora della cattività, o in senso più lato la tentazione sadomasochistica attraversa il decennio dei ’70, declinandosi in opere autoriali o di consumo e trovando una sorta di programmatica messa in scena nei nazi movie, parapornografia divertente e spesso irresponsabile che si muove sulle tracce nobili de La caduta degli dei di zio Luchino.

Rispetto al panorama velocemente abbozzato La orca si distingue per ferocia e sincerità. Un film veloce (un’ora e mezza e via), spigoloso, sensuale e senza speranza. Al centro la protagonista interpretata dalla meteora Rena Niehaus, biondissima e dalla pelle candida, intorno a lei un gruppo di maschi nerovestiti, dai tratti loschi e dalle espressioni sinistre. Visconti è bravissimo nell’usare le facce. La maschera di Flavio Bucci, uno dei grandi attori italiani, vero e proprio freak dagli slanci satanici, indimenticabile in film come Suspiria, L’ultimo treno della notte e in quel suo, purtroppo mai replicato, one man show che è Maledetti vi amerò di Giordana. Ma resta impresso anche il commissario incarnato da Vittorio Mezzogiorno, funzionario socialmente più vicino ai sequestratori ma connivente con la borghesia. La filmografia viscontiana prosegue con Una spirale di nebbia, che riposiziona autobiograficamente in Lombardia il grande romanzo di Michele Prisco, anche questo un giallo interiore, di delitti senza colpevoli e poi il film testamento Malamore. Storia lacerante di un nano e del suo amore per una prostituta, Malamore è una sorta di delirante anello di congiunzione fra Freaks e il cinema delle carrozze che barcollano sui sanpietrini, da Bolognini in giù. Un film funebre e stanco, di una stanchezza che è forse quella di un certo modo di intendere il cinema: oltranzismo visivo, privilegio delle proprie ossessioni, nessunissima paura del ridicolo. Un cinema che ci manca.

Fabio Orrico

 

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