Fine del lavoro

marc

“Tutto quello che ha l’aria di essere definitivo mi mette a disagio”(Sten Nadolny)

 La prima cosa che faccio è staccare il telefono, la seconda è staccare la radiosveglia, la terza è staccare il computer, che qui è sempre acceso, e quando dico sempre non uso un eufemismo, sempre è “24 ore su 24”, “sette giorni su sette”.

Non mi alzo dal letto. Per la prima volta in vita mia sento il fruscio dei miei pensieri, che increduli si agitano, che si guardano senza capire quello che sta accadendo fuori.

Con lentezza per me inedita scendo dal letto. Sono nudo.

Con calma mi infilo la vestaglia nera e grigia di Armani.

In cucina uso, per la prima volta da quando l’ho acquistata a Berlino cinque anni fa, una caffettiera tedesca, che dovrebbe fare un caffè lunghissimo, che ha bisogno di tempo, per essere fatto e per essere consumato. Scaldo due fette di pane da toast e le spalmo di burro di arachidi. Con calma inaudita sorseggio il lunghissimo caffè, che però fa un po’ schifo, e sgranocchio il pane tostato.

Neanche la domenica mi prendo tanto tempo per la colazione, anche perché per me la domenica è sempre stato un giorno come un altro, un giorno di lavoro. L’orologio sulla parete di fronte mi informa che a quest’ora dovrei essere in ufficio, incollato al computer, a moltiplicare il nulla con il nulla, a sfruttare il momento, a cavalcare l’onda come un surfer, in equilibrio precario, ma finché sei sulla cresta della gigantesca onda del nuovo che avanza inesorabile ti senti come dio, quantomeno come il dio che riesce nel miracolo di far apparire montagne di soldi da niente di concreto, non più la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma la moltiplicazione dei soldi e dei soldi, tutto grazie alle informazioni che corrono veloci, forse troppo veloci. Lo ignoro con un sorriso tra l’amaro il colpevole e il soddisfatto. Metto nel lettore un CD dei Massive Attack, alzo il volume per poterlo sentire in tutto l’appartamento, che grazie al mio lavoro libero, libero nel senso che sono libero di lavorare tranquillamente dodici ore al giorno, libero di muovermi per l’ufficio, che non sembra un ufficio ma una sorta di loft informale dove noi super esperti di informatica ci vestiamo come ci pare, mica siamo obbligati a portare giacca e cravatta, noi siamo come spiriti liberi, dei veri ribelli, liberi di lavorare senza orari, ma di lavorare il doppio di chi un rigido orario ce l’ha, sì ma noi possiamo lavorare con ai piedi le pantofole con la gigantesca faccia di Topolino, noi lavoriamo in tuta da ginnastica e felpe colorate e T-shirt con la A cerchiata o il logo dei ribelli punk Sex Pistols, e noi guadagniamo un sacco di soldi, con i quali mi sono appunto comprato queste costosissime casse Bose, che diffondono la musica dei Massive Attack per tutta la casa.

Riempio la vasca da bagno di acqua caldissima, aggiungo sali e bagnoschiuma alla pesca e accendo candele colorate. Mi immergo in questa nebbia calda e profumata e per la seconda volta in vita mia sento i miei pensieri che si allargano nella testa, che discutono fra di loro chiedendosi sempre più preoccupati che cosa stia accadendo fuori. Li lascio fare. E’ piacevole tutto questo perdere tempo in un lungo bagno e non in una veloce doccia, per non perdere tempo e correre al mio computer di casa a lavorare altre due o tre ore collegato col computer centrale dell’ufficio-loft.

Mi lavo i denti ma non mi faccio la barba. Tolgo il CD dei Massive Attack terminato e metto nel lettore quello dei Cousteau. Con calma per me nuova mi vesto: T-shirt nera, pantaloni neri, giacca a quattro bottoni nera, polacchine di Prada nere. Con la solita calma di questa strana mattina riempio il mio zaino di pelle nera di Bold di maglioni, T-shirt, pantaloni, boxer, canottiere, calze, e quant’altro, tutto nero. In un altro zaino, ma più piccolo, di Prada, metto buona parte dei miei nastri musicali, ai CD dovrò rinunciare, dovrò rinunciare a molte cose. Già.

Stacco la luce, chiudo il gas e l’acqua, stacco la presa dal mio costoso impianto stereo. Spengo il computer, che devo aver riacceso passandoci davanti prima in una sorta di gesto automatico, assolutamente fuori controllo, dove tre e-mail proveniente dal mio ufficio-loft mi chiamano lampeggiando minacciose ma inutilmente all’ordine. Mi infilo un eskimo verde militare scuro ed esco di casa. In strada, l’unica macchina parcheggiata lungo il marciapiede, il resto del mondo è sicuramente a lavorare, dove dovrei essere anch’io, d’altronde, è il mio VW Maggiolone nero del 1973, la nuova Jaguar acquistata col mio libero lavoro, è in garage, e li resterà per sempre. Già.

Il Maggiolone è un german look totalmente nero: paraurti, coprifari, tutte le cromature sono state dipinte di nero. L’unico colore differente è la striscia bianca dei pneumatici. E’ una macchina lenta, come voglio essere io da oggi in poi, liberato dalla libertà del nuovo lavoro figlio di tecnologie sempre più veloci e sofisticate e disumane che avanza succhiando l’unica libertà che ci è rimasta: il tempo. Il mio tempo non è più in vendita, non mi lusinga più il denaro, ne le persone che affermano che sono un “drago” al computer. Quando è iniziato tutto, mi sembrava di essere un anarchico del lavoro, un ribelle di nuova generazione, padrone del mio tempo e delle mie azioni e della mia invidiata competenza in fatto di tecnologie, un anarchico che in più guadagnava una montagna di soldi, che poteva permettersi di spendere ventimila euro per far restaurare il suo vecchio VW Maggiolone e in più comprarsi una Jaguar nuova in contanti, ma più passava il tempo e più mi rendevo conto di essere più schiavo del lavoro degli altri lavoratori, altro che ribelle: non c’era più niente al di là del monitor del mio computer: tabula rasa, disastro nucleare, tutti morti, nessun ferito.

Carico lo zaino dei vestiti sul sedile posteriore e quello con le cassette sul sedile del passeggero. Giro la chiave e il motore 1200 del Maggiolone parte col suo suono tipico da motore raffreddato ad aria. Motore che gira alla perfezione nonostante l’età, o forse proprio per questo, perché questo motore è nato per durare, non è programmato come tutto quello che si produce oggi a suicidarsi dopo due anni, quando sei fortunato. Metto su un nastro dei Tarwater e parto. Transito lentamente sotto l’ufficio-loft dove dovrei essere da ore, dove i miei amici-colleghi sempre più giovani lavorano con questa falsa consapevolezza di libertà. I miei pensieri danno ordini perentori, ed io per la prima volta in vita mia li ascolto, e li ascolto per quello che dicono veramente, e non per quello che penso di aver capito io. Accelero lasciandomi dietro l’ufficio-loft, e forse, se continuerò ad ascoltare i miei pensieri, una vita che tale non sembrava più.

Mentre esco dalla città mi assale un dubbio: e se i miei pensieri si sbagliassero, e se la vera vita fosse quella che ho vissuto freneticamente e senza pensare fino a questa mattina, e non quella che mi si prospetta, insufficientemente illuminata, da questo momento in poi? E se fosse tutto un errore? Freno. Fermo il Maggiolone sul ciglio della strada. Esco dalla macchina. Guardo il Maggiolone e come al solito un sorriso mi appare sulle labbra, è il suo potere. Osservo le macchine, i camion, i pullman, che sfrecciano a pochi centimetri da me e dalla mia macchina, osservo le facce degli occupanti delle macchine, dei camion, dei pullman: c’è qualcosa di infinitamente triste. Io li vedo, io la vedo questa tristezza, questa rassegnazione inconsapevole, loro non vedono ne me, ne tutto questo. Loro hanno fretta, sono liberi di lavorare dodici quindici ore al giorno, io questa libertà non la voglio più, grazie. Rientro in macchina ma dopo pochi chilometri verso chissà dove (ma dove cazzo sto andando?) faccio inversione a U e ritorno di corsa a lavorare nel mio ufficio-loft: ma cosa pensavo di fare? Ma dove pensavo di andare? Eh, dove? Io non so più cosa farmene del tempo libero, io ho il terrore del tempo libero. E cosa dovrei fare nel tempo libero, eh, cosa?

Arriverò tardi al lavoro, ma non ha importanza, lavorerò di più sabato e domenica col mio veloce computer collegato all’ufficio-loft.

L’autore:

Roberto Saporito è nato ad Alba (CN) nel 1962.

Ha studiato giornalismo.

Ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti. Tra gli ultimi romanzi pubblicati ricordiamo “Il rumore della terra che gira” (Perdisa Pop, 2010, nella collana “Corsari” diretta da Luigi Bernardi) e a luglio 2013 il romanzo “Il caso editoriale dell’anno” (come “Anonimo”) con Edizioni Anordest.

Nel 2015 ha pubblicato un nuovo romanzo dal titolo “Come un film francese” con Del Vecchio Editore di Roma.

Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie e innumerevoli Riviste Letterarie.

Collabora con la Rivista Letteraria di Milano [diretta da Gian Paolo Serino] “Satisfiction” [ http://www.satisfiction.me/ ] con una sua personale rubrica.

Nel 2013 il suo primo romanzo “Anche i lupi mannari fanno surf” [2002] diventa “oggetto di studio” di una delle dieci lezioni del corso di scrittura narrativa “Inchiostro rosso sangue”, per la precisione la settima intitolata “L’hard boiled in salsa italiana: il curioso caso di “Anche i lupi mannari fanno surf”, di Roberto Saporito.”, organizzato dalla Rivista Letteraria “Inchiostro” a Verona, insieme ai romanzi, oggetto di altre lezioni, di Giorgio ScerbanencoCarlo Lucarelli, Massimo Carlotto e Gianluca Morozzi.

Lascia un commento