TUTTO FUORCHÉ UN DESTINO ULTRATERRENO

Non c’è niente di peggio di una storia che non aggiunga nulla a ciò che già si conosceva e di un autore che non sa fare di meglio, se non abbandonare quella storia per strada.

Decisamente non è il caso del romanzo Si vede che non destino (Terrarossa ed.) scritto da Daniele Petruccioli.

Sebbene la storia narrata sia nota da duemila anni, sembra di ascoltarla qui per la prima volta poiché a narrarla è Maria; il suo è un punto di vista privilegiato e perciò molto più preciso di tutti quelli che hanno scritto questa storia molti anni dopo l’epilogo del protagonista Gesù, nel romanzo Ieshua.

La voce narrante non ha nulla di quell’aurea di santità che si è solito attribuirle, ingannando la verità e circoscrivendola a poche immagini edulcorate.

Qui Maria è una persona in carne e ossa, una ragazza e poi una donna che si consuma nelle sue paure, che affonda nell’oscurità di un mistero che non si dipana neppure quando la fine è prossima, che sa di doversi proteggere da un enigma così grande da diventare ingombrante e insopportabile.

Eppure di questo enigma, di questo mistero lei è parte, ma una parte tutta umana e quindi indifesa perché minuscola rispetto a ciò che le si chiede di sopportare.

La quotidianità di eventi che per altre ragazze, per altre donne rientra nel cerchio dell’esistenza condivisa non è affatto semplice per Maria: nella sua mente prima e nella sua carne dopo si incarna il verbo che però non ha suono, non ha forma, non ha dimensioni materialmente concepibili.

Con una scrittura curata e fluida, l’autore Daniele Petruccioli ci conduce lì dove tutto è iniziato per sciogliere davanti ai nostri occhi di lettori i nodi di un avvenimento con cui tutti, credenti e non, devono fare i conti prima o poi.

Nella figura di Maria, all’inizio esile quattordicenne e in seguito donna dalle certezze sempre in bilico, piano piano scivoliamo anche noi, accettando finalmente la sua essenza umana in cui incontriamo la nostra.

Dubitanti, scossi da ciò che avvertiamo senza saperlo spiegare, sempre in cerca di una luce che sfrondi la densità buia di una notte infinita, accompagniamo Maria, leggendo, in tutte le tappe della sua vita che non ha mai nulla di predestinato o di eroico, ma sempre e solo qualcosa di esitante e timoroso.

I suoi passi, mentre avanza negli anni, sono poggiati sui terreni fangosi del dubbio e del sospetto che nulla sia come l’aveva immaginato.

Quando la vediamo ragazzina muoversi nella casa paterna, poi incontrare Giuseppe che sposerà, quindi partorire, vivere i primi anni con il piccolo Ieshua che osserva con attenzione, scoprendone lati incomprensibili, viaggiare in groppa ad un asino fino in Egitto per poi ritornare in Palestina, confrontare se stessa con sua cugina Elisabetta, attendere i lavori domestici senza riuscire a liberarsi dal pensiero che la sua esistenza non è né mai sarà paragonabile a quella di sua madre o delle altre donne, vedere crescere suo figlio che non ha nulla in comune con i coetanei, ritrovarsi sola, dopo la morte dei suoi genitori e dell’amato marito, il nostro sguardo si è liberato da tempo dalle nozioni che qualcuno ci ha impartito a catechismo.

La storia nota diventa qualcos’altro: discesa nei gorghi di un’anima che non si preoccupa di cercare appigli in formule stampate sui testi sacri, ma che si spinge oltre i limiti del silenzio, esplorando gli spazi tra le parole, dove l’istinto può seminare visioni che la ragione non comprenderà mai.

Il rapporto tra Maria e Ieshua è improntato ad un’autenticità che ci commuove: si dissolvono gli echi di una divinità ancestrale che ha scelto di manifestarsi in bagliori d’argento e si infittiscono i momenti di una conoscenza reciproca che sa di pudore, di sofferenza, di inquietudine e di perplessità.

Leggiamo: “Allora la paura ha preso in me del tutto il sopravvento perché sentivo, sapevo in modo inequivocabile, che quando un suo ginocchio avrebbe toccato terra, l’uomo sarebbe morto. E poi toccava a me. A me che ero quel luogo. A me che ero quel mondo. Non come nell’argento, non pezzo a pezzo, non goccia a goccia. Non come se morisse tutto il mondo. Ma dopo, subito dopo la fine del mondo. Di botto. E completamente sola”.

Questa solitudine di Maria sarà appena un poco mitigata dalla presenza di Maria Maddalena che fa la sua comparsa nelle ultime pagine, quando su Ieshua già aleggia la morte.

La figura della Maddalena acquista in queste pagine un rilievo straordinario perché non è la contropartita del peccato perdonato da Ieshua, bensì una donna colta e consapevole che sceglie liberamente in chi e in che cosa credere.

E lei ha scelto di credere nella verità più assurda, più irreale, più sfuggente.

Con quanta delicatezza Maria Maddalena si affaccia nel racconto; tutta l’enfasi del suo retaggio lascia il posto ad una levità di sentimento, ad una profondità di pensiero che la rendono pari alla madre dell’uomo che apertamente dichiara di amare nello spirito e nel corpo.

Scopriamo dunque che le due Maria hanno in comune molto più dell’amore che provano per Ieshua: il legame che le unisce sta nella capacità di concepire un tempo diverso da quello abitato dal resto del mondo e di vivere l’estasi del mistero, prevedendone le dolorose conseguenze.

Sentono con forza e intensità e di questo sentire viscerale dovranno nutrire i giorni che seguiranno la crocifissione del loro Ieshua. 

Leggiamo: “Da te invece, non so cosa mi aspetto. Probabilmente niente. È questo il bello. Magari fare due focacce insieme, stare in silenzio, impastare piano piano. Non domandarsi niente. Andare via dagli universi di tuo figlio, dalla confusione dei tempi e degli spazi, dalle mille molteplicità che è, che siamo, da tutta l’imprescindibile divinità di essere esseri umani”.

Luciana De Palma

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