SCACCO MATTO ALLE ILLUSIONI

Prima di tutto voglio parlare di mia moglie. Amare, oltre a molte cose, vuol dire trarre diletto dal guardare e osservare la persona amata. E non soltanto trarre questo diletto della contemplazione dalle sue bellezze, ma anche da quella delle sue bruttezze, poche o molte che siano”.

Con queste parole inizia il romanzo breve di Alberto Moravia dal titolo L’amore coniugale (Tascabili Bompiani), scritto nel 1949.

Il protagonista è un giovane uomo, Silvio Baldeschi, che cerca di essere sia un buon marito che un bravo scrittore. Il sospetto che fallirà entrambi gli obiettivi serpeggia già nelle primissime battute poiché negli intervalli tra una parola e l’altra spira il vento gelido dell’impossibilità di dare forma a ciò che forma non potrà mai avere.

Moravia ci spinge dentro una vertigine di incongruenze e di dubbi, di lacerazioni e di ipocrisie, mostrandoci con spietata lucidità quanto il contrasto tra la vita affettiva e quella culturale sia peggiore di una ferita provocata da un’arma da fuoco.

Senza reticenze, senza pudori, lo scrittore, adoperando con infallibile precisione uno stile secco e duro, racconta tutte le storture insite in un rapporto che dovrebbe essere chiaro e pulito sempre. E non solo in quello.

Concentrato sulla stesura del suo primo romanzo, il protagonista, dopo aver abbandonato il lavoro di giornalista, rifiuta la richiesta di scrivere contro il sindaco del paese. Ormai le sue giornate scorrono in una routine priva di sorprese e di incanti: l’incontro mattutino con il barbiere, quindi il lavoro sul romanzo, infine gli incontri casti con la amata moglie Leda che per spronarlo alla scrittura gli propone di non avere rapporti sessuali fino al completamento dello scritto.

La consapevolezza di aver realizzato un’opera mediocre è seguita a ruota dalla scoperta di essere stato tradito: la superficie quieta del lago in cui si era specchiata l’esistenza della coppia all’improvviso si agita, frantumando l’unità in mille pezzi.

Non resta che fare un falò del romanzo e forse anche dell’amore idealizzato.

Leggiamo: “Le parole non erano più parole bensì frammenti di un metallo che io via via saggiavo con perfetta sicurezza per mezzo della pietra di paragone del mio gusto, Non leggevo di seguito perché non volevo restar preso dal ritmo della narrazione, ma qua e là, e più leggevo più cresceva la mia inquietudine. Mi pareva impossibile di sbagliarmi ormai: il racconto era veramente brutto, senza rimedio”.

Il tragitto dalle illusioni alla verità non è mai stato descritto con tanta maestria ed efficacia. Sia nel protagonista che in noi lettori affiora con impeto sempre maggiore, di pagina in pagina, la certezza che quegli scricchiolii che di tanto in tanto si udivano nel silenzio delle sicurezze apparenti erano in realtà le prime avvisaglie di un crollo che sarebbe stato imminente e mortale.

L’ambiguità svela alla fine il marcio che aveva covato, l’alienazione prende il sopravvento e si tramuta in un mostro che si ingigantisce, nutrendosi delle maschere che di volta in volta sono state indossate dai protagonisti della vicenda.

Tutto è finto, beffardo e sfuggente.

Leggendo, si ha la netta sensazione di ritrovarsi in un labirinto da cui sarà difficile uscire a meno che non si accetti di sfondare gli argini stratificati dalle ombre di certezze apprese in una lunghissima cattività spirituale.   

Leggiamo: “Come se li avesse visti per la prima volta, gli si rivelavano la volgarità delle vetrine piene di oggetti che gli parevano tutti inservibili; la miseria fradicia e ombrosa dei vicoli sparsi di detriti e di ombre guardinghe di gatti, la goffaggine dei vestiti delle donne; la povertà di quegli uomini; l’aspetto sudato, untuoso, disfatto delle facce che senza tregua uscivano dalle ombre della strada, gli si avventavano incontro e scomparivano”.

Lo scacco è completo: sul fronte sentimentale e su quello professionale non c’è più nulla per cui combattere.

La passione che si voleva respirare in campo privato e in quello artistico è svilita, vinta, liquefatta senza possibilità di rinascita.

Leggiamo: “Io mi ribellavo soprattutto all’immagine di me stesso che il libro mi forniva. Non volevo essere un velleitario, un incapace, un impotente. Eppure capivo che appunto perché mi ribellavo, questa immagine era vera”.

Ecco, allora, che l’intento iniziale del protagonista, ovvero guardare per cercare, conoscere e contemplare anche le bruttezze, è stato soddisfatto, ma a quale prezzo!

La crisi scoppia e investe ogni ambito: matrimoniale, individuale, sociale, artistico e morale. Esplode il caos, quando gli occhi vedono e le labbra pronunciano il nome esatto del cumulo di macerie che riempie l’esistenza.

Non c’è ragione per continuare a tentare di camuffare il fetore con profumi costosi.

La verità si palesa con forza come quando, entrando in una stanza, la presenza di fiori appassiti si rivela già dal cattivo odore che ha impregnato ogni cosa.

Luciana De Palma

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