I marziani che aspetti in aeroporto sono giapponesi della Toyota. Ti sfidi a individuarli tu prima che lo facciano gli ospiti, in quel’aeroporto poco affollato. Poi pensi che se non li riconosci tu saranno loro a trovare te, se sanno leggere il cartello che reggi in mano. Vero, non è scritto in caratteri, ma sapranno leggere ROBOMET, stampato a lettere grandi. Se non leggono sette fottute lettere dell’alfabeto latino, è una disgrazia per loro, per la Toyota e per Robomet.
«Che dirigenti manda la Toyota nel mondo, se non sanno leggere questo cartello?» ti domandi a denti stretti, confidando nei rumori dell’aeroporto.
«Che cosa?» ti dice l’autista del pullmino con un cenno del capo, sbuffando fumo e brontolando una terza parola. Non una parolaccia, speri, che non si addice a questi servizi.
Scuoti il capo. «Niente». Invece vorresti spiegargli che con questi giapponesi della Toyota devi fare bella figura. Lo dici a te stesso annuendo come un asino. Lo devi al capo del capo del tuo capo, l’amministratore delegato che la scorsa settimana ti ha fatto salire al suo ufficio, ai piani alti della palazzina uffici.
L’autista getta il mozzicone di sigaretta nel cestino e fa un gesto con la mano. «Vado a comprarmi le sigarette» ti dice. Tu annuisci. Annuire è una delle cose che sai fare meglio. Come qualche giorno prima dall’amministratore delegato.
*
Non c’eri mai stato, nel suo ufficio. L’amministratore delegato lo conoscevi, perché ti era stato presentato da un dirigente per il quale dovevi cercare nuovi ingegneri da assumere. Ma ti eri fermato al saluto e a poche parole di circostanza.
Sei salito al suo ufficio evitando l’ascensore che ti avrebbe portato dritto dall’amministratore delegato senza darti tempo di capire dove ti trovavi. Quando incontri qualcuno speciale non vuoi capitargli addosso senza preparazione. Ci arrivi per gradi. Camminando lento. Non vuoi dover abbassarti a chiedere a qualcuno. Il cuore ti batteva forte. Hai fatto i gradini a uno a uno, non a due a due come d’abitudine, guardandoti attorno e ascoltando il passo affondare muto nella moquette azzurra. Hai contato trentacinque gradini. Al piano ti sei guardato attorno. C’era silenzio. Hai percorso il corridoio. Doveva essere in fondo, l’ufficio dell’amministratore delegato. Tutti gli uffici importanti sono in fondo ai corridoi. Non hai dovuto bussare. Prima dell’ufficio dell’amministratore delegato c’era quello della segreteria. Ti sei annunciato a una delle due impiegate e lei si è alzata. Tu l’hai seguita a un passo, lei ha bussato all’ultima porta in fondo, l’ha socchiusa, si è voltata da te e a un suo cenno della mano sei entrato a lunga falcata. Sempre bene farsi vedere sicuro dai capi.
L’amministratore delegato sedeva affondato nella poltrona girevole di pelle nera, di là da quella portaerei che era la sua immensa scrivania. Diversi modellini di velivoli da caccia luccicavano sul grande mare notturno della superficie lucida dove lui poggiava un gomito. Lo hai salutato. Salutare educatamente è una delle cose che sai fare meglio.
«Si sieda, dottor Barale» ti ha detto indicando una delle quattro poltroncine di fronte alla scrivania, ricambiato il saluto. Altrettanto educato.
Ti sei seduto. Espressione fiera, mezzo sorriso, sguardo vigile e sghembo, un occhio dritto al suo nodo della cravatta e l’altro sugli aerei, cuore in tumulto, tremore di gamba, farfalle nello stomaco.
«Le piacciono? Sono doni di aziende clienti» ti ha detto lui indicando gli aerei. «Comprano i nostri robot». E ti ha snocciolato un rosario di compagnie aeronautiche di tutto il mondo che usano le tecnologie di Robomet. «Gli aerei volano» ti ha spiegato «perché i nostri robot ne hanno assemblato i componenti, li hanno saldati e verniciati per poi misurarli in frazioni di micron durante il controllo di qualità».
Tu l’hai ascoltato, lo sguardo ancora a metà tra il nodo della sua cravatta e gli aerei in formazione su quella portaerei di scrivania; poi hai avuto il coraggio di dirigerli, entrambi, dritti ai suoi.
Sei riuscito a parlare. «Capisco» hai detto, annuendo. E sorridendo.
«Lei è il più giovane, al Personale.»
“Vero”, hai pensato. Hai annuito, senza dire. Con un sorriso. Questa era facile, e non presupponeva una risposta da parte tua perché il suo tono non era interrogativo.
«E le piacciono le persone di altri luoghi. Se no, non avrebbe studiato Lingue.»
«Sì» ti è uscito a botta. Anche se avresti voluto dire che mica a tutti quelli che hanno frequentato Lingue all’Università interessano le persone. Gli stranieri. Le culture. Il mondo vasto. Per tanti che hai conosciuto è stata una scelta di comodo. Hai aggiunto solo, sparando il tuo sorriso una spanna sopra di lui: «E non avrei scelto di venire a lavorare qui».
Ha ricambiato il sorriso, l’amministratore delegato. Si è voltato indietro, a seguire il tuo sguardo, alto sopra la sua testa. «Le piace quello, dottor Barale?».
“Quello” era un planisfero enorme, antico, appeso nella sua cornice dorata sulla parete dietro la scrivania. «Me l’ha regalato la General Motors. Senta cosa c’è scritto qui» ti ha detto indicando una targhetta in lamierino dorato avvitata sulla cornice. «From a global company to a global company» ha letto. «Perché noi, come loro, così vogliamo essere. Globali. Sa cosa significa, dottore, vero?»
«Sì, certo» hai annuito frettoloso senza smettere di sorridere, temendo volesse approfondire. Di globale sapevi soltanto del villaggio di McLuhan di cui avevi letto su «El Paìs» all’Università. Ricordavi poco dell’articolo, e non avevi gran idea delle implicanze aziendali di quella teoria, pur avendo lavorato cinque anni in una multinazionale dolciaria.
«Ecco, bravo. Proprio per questo abbiamo pensato a Lei per una missione.»
L’amministratore si è alzato dalla scrivania e si è messo a camminare in tondo dietro la scrivania, giocherellando con una pallina da tennis. Di tanto in tanto si fermava per guardare ora me, ora il planisfero antico dietro la sua testa.
Ti sono venuti in mente i film di James Bond e la nave Pequod di Ismaele. Hai pensato a mirabolanti trasferte all’altro capo del mondo. O anche solo New York, non così lontana. Quando eri alla multinazionale dolciaria avresti fatto carte false per farti trasferire alla loro sede sulla Quinta Strada, perché così ti saresti iscritto a un’Università americana per una seconda laurea. E invece ti eri iscritto a Scienze Politiche per una seconda laurea a Torino.
Avresti voluto dirlo, all’amministratore delegato, di quell’azienda del cioccolato che non ti ha mandato alla sede sulla Quinta Strada. Ma hai taciuto, per non rovinare quel momento rivelando di non aver mai chiesto alla multinazionale di farti partire per New York, perché se l’avessi detto, forse ti avrebbero mandato. E poi, magari la proposta che lui si apprestava a formularmi era addirittura più ghiotta di una semplice New York. Gli hai solo stampato addosso i tuoi occhi spalancati in un grande punto interrogativo.
«Sì, una missione parecchio delicata» ha proseguito dopo qualche istante di silenzio l’amministratore delegato, fermando il passo e il movimento delle dita sulla pallina da tennis.
Sono rimasto in attesa, certo di una promozione con annesso trasferimento alla sede di Beverly Hills a Los Angeles.
«La prossima settimana deve andare a prendere all’aeroporto diciotto dirigenti della Toyota» ti ha detto guardandoti negli occhi spalancati, facendoti cadere le mutande per la delusione.
«Andare a prenderli all’aeroporto?» hai domandato, sforzandoti di non storcere il naso.
«Sì. Tranquillo, non deve fare l’autista» ride. «Ci sarà un pulmino, che abbiamo già noleggiato. Vengono da Aichi, Giappone, per capire qualcosa della nostra azienda. Ma anche di noi italiani, del nostro Diritto del Lavoro. E Lei li accompagnerà, poi, per un giorno intero. E spiegherà loro il nostro mondo. E le regole italiane. Sa perché abbiamo pensato a Lei, dottore?»
Già, questo ti stavi domandando. “Perché a me, che neppure ho mai dato un esame di Diritto, e in giapponese so dire soltanto arigatou gosaimas?”.
«Non c’è bisogno di essere giuristi» ha detto l’amministratore, come se ti avesse letto nel pensiero. E si è riseduto dietro la scrivania.
Presa una delle tre pipe allineate accanto al telefono, l’ha pulita con uno scovolino, l’ha riempita di tabacco pizzicato da una scatolina cilindrica bassa che ha pressato lieve con un dito, poi ne ha aggiunto altro premendo deciso, e con un fiammifero l’ha accesa a larghi sbuffi.
Mentre l’amministratore delegato accendeva la pipa, ti sono venute in mente molte cose. I cinesi e i giapponesi per te sono un mistero. I cinesi, soprattutto, e non solo per l’abbigliamento. Forse per certe sfumature politiche che non afferri. Limite tuo. Ignoranza. Forse non è neppure colpa tua. Del resto, maledizione, a scuola nessuno ti ha fatto studiare la Cina. Non sai nulla, della Cina, che ti evoca solo favole antiche e sapori di agrodolce dei ristoranti cinesi in Scozia. E poi, l’agrodolce non ti piace e forse ti fa male, come quella volta al cinese in Gerrard Street a Londra col capo filiale della multinazionale dolciaria: sarà stata influenza allora, ma vai a sapere. “Mi andrà meglio questa volta, con i giapponesi” hai pensato. “Per fortuna sono giapponesi”.
«Non c’è bisogno di essere giuristi» riprende, reggendo la pipa in mano «né di aver abitato in Estremo Oriente. Ci vuole di più». Mi ha guardato, come se quel “di più” fossi io in persona. «Ci vuole capacità di sintesi. Di carpire l’essenziale. E curiosità» ti ha detto.
«Grazie» hai solo avuto il coraggio di dirgli, con un filo di voce. Un grazie sincero, ma a mezza voce perché il fumo – anche quello dolce di tabacco da pipa – ti mozza il fiato. Spezza la parola. In effetti gli eri grato, perché le cose nuove ti appassionano. E hai fatto per salutare.
«Aspetti un momento» ti ha detto. «Deve dare loro una cosa». Alzatosi, si è diretto all’armadio nell’angolo dell’ufficio, l’ha aperto, ha preso una grande borsa di nylon col logo della Robomet. «Queste sono per loro» ha spiegato estraendo una scatolina. L’ha aperta. «Una pipa Savinelli. Ce n’è diciotto, dentro. Ne deve dare una per ogni dirigente giapponese».
Tu hai annuito. Speravi un libro o una penna, più facili da spiegare, tu che non fumi e sulla pipa italiana non sai che dire.
Lui ha riposto la pipa nella scatolina e questa nel borsone di nylon, che mi ha allungato. E ti ha ringraziato in anticipo.
Pure tu hai ringraziato – per la seconda volta – e ti sei congedato dall’amministratore delegato con una stretta di mano coraggiosa e uno sguardo curioso.
*
«Allora, sono arrivati?» ti dice l’autista, tornato trafelato con due pacchetti di sigarette in mano, raddrizzandosi il badge della ditta di trasporti appuntato sulla giacca blu.
Scuoti il capo.
«Ma ci vedranno?» domanda.
«Abbiamo il cartello» rispondo mettendomi in punta di piedi per allargare il campo visivo.
«Ma se non ci vedono loro, come facciamo?» ti dice.
«Li riconosceremo noi. No?» dici poco convinto, stringendoti nelle spalle.
Annuisci, scansionando con lo sguardo la folla che comincia a uscire dal varco degli arrivi.
Già. Li riconoscerai, questi giapponesi, che anziché indossare giacche militaresche con tasconi e pantaloni in tinta, arriveranno nella loro divisa simile alla tua, fatta di abito blu scuro, camicia bianca e cravatta sobria? Per fortuna ti aiuta questo cartello con scritta ROBOMET. Ti vedranno loro. Sfidi te stesso a trovarli tu, prima che loro arrivino da te. Devi essere tu a salutarli per primo.
«Buon pomeriggio, Robomet» ti assale gentile un uomo identico a come te lo aspettavi: piccolo, occhi a mandorla, capelli neri, abito come il tuo, capo chino in un saluto. Ti stupisci. Non ti aspettavi la sua pronuncia perfetta delle erre, probabilmente provate mentalmente prima di pronunciarle. Sei deluso che ti abbia visto lui, prima che tu ti accorgessi di loro. Ma sorridi all’uomo in abito nero, chino di fronte a te. Rispondi sciolto al suo saluto in inglese e con imbarazzo provi un inchino.
Gli altri diciassette asiatici, tutti vestiti uguali e a capo chino di fronte a te, ti salutano a turno nel medesimo modo. In mano tengono una borsa da pilota. Tutte uguali. Uguale, pure, a quella che avevi quando viaggiavi per la multinazionale dolciaria: borsa piccola ma capace, buona per una settimana, se sai farci stare le tue cose. E si sa che i giapponesi sono maestri in questo genere di cose. T’inchini anche di fronte ai diciassette.
«Buonasera e benvenuti a Torino» rispondi. Benedetto inglese.
Porgi la mano al primo che aveva parlato. Lui non te la stringe ma china di nuovo il capo. Tu fai lo stesso, di nuovo, mentre lui apre il portafogli, ne estrae un biglietto da visita, lo afferra con due mani e te lo porge cerimonioso con un terzo inchino, più pronunciato dei primi due, dicendoti due parole che non afferri: nome e cognome, certo. O cognome e nome, all’asiatica. Gli altri diciassette fanno lo stesso. E tu, uguale.
Anche tu estrai dalla tasca della giacca i tuoi bigliettini da visita. Come un ufficiale di picchetto passi i giapponesi in rassegna, ognuno ti porge un biglietto da visita a due mani con inchino, da te ricambiato goffamente. E trattieni il ridere, trasformato in splendido sorriso da orientale. A tutti consegni un biglietto da visita: «Mario Barale, piacere». Ci prendi gusto, a pinzare con due mani il tuo piccolo biglietto da visita e a consegnarlo con un inchino.
«Andiamo?» domanda l’autista, poco discosto, stanco di cerimonie.
«Andiamo, sì» rispondi all’autista, aggiungendo un gesto del braccio rivolto ai giapponesi. Ti avvii nella sua direzione, seguito dai diciotto dirigenti della Toyota in fila indiana. Andate al pulmino, ti siedi accanto all’autista. Al Ristodante (in corso Dante, ça va sans dire) traduci per loro in inglese il menu. Loro annuiscono, sorridono. Mai che dicano di no. Trasferisci le comande al cameriere che assiste divertito. Ti raccontano del loro fondatore, Sakichi Toyoda, che quando produceva solo telai, negli anni ’30, diceva ai collaboratori: «Aprite la finestra, c’è un mondo enorme là fuori». E di Taichii Ohno, inventore del Toyota Production System. Chini il capo sorridendo, incerto di aver mai sentito di quell’Ohno.
Al dessert fingi di non vedere i compassati dirigenti del sol levante che sparacchiano sul piatto i semi d’anguria anziché depositarli sulla mano per poi deporli a dovere, mentre l’autista, seduto all’altro capo del tavolo, ti fa tanto d’occhi. E non ridi quando uno di loro, infervorato in un discorso di politica industriale, senza interrompersi nell’inglese sconnesso s’inclina di lato, facendosi rosso in volto e serio lancia un formidabile peto: affondi gli occhi nel piatto e perdi il filo dell’argomentare dell’ospite, già ingarbugliato dal suo inglese imperfetto mescolato a un’espressione senza emozione.
La mattina successiva – ricevuti e ricambiati gli inchini – accompagni i giapponesi nella sala auditorium per la tua presentazione. È un grande locale rosso, attrezzato come le migliori sale di conferenza. Sei intimidito dal luogo e dalle aspettative dei giapponesi, impazienti che tu apra loro una finestra, come insegnava il loro Toyoda, e mostri il mondo enorme della Robomet e del sistema italiano. Ma tu sei capace di aprirla, la finestra? E poi, è così grande da interessare a loro, questo mondo che devi esporre? E se sì, lo saprai rappresentare a modo?
Sali sul palco, aggiri il tavolo su cui hai preparato il marchingegno per proiettare i lucidi, scritti al computer. Il formidabile pc che troneggia su un tavolino di fianco alla tua scrivania non è a uso personale perché lo condividi con Paola Balzanelli, la responsabile della selezione. Ve lo contendete sempre, adducendo l’uno e l’altra i motivi di preminenza dei rispettivi ruoli: «Devo scrivere su WordPerfect i lucidi del corso di formazione per capi» dici tu. «Io le valutazioni dei candidati, Mario» ti risponde. «E io anche i profili del potenziale degli ingegneri» ribatti. «Ma devo mandare la relazione al capo» piagnucoli. «Anch’io, Paola, su Lotus 1-2-3 i grafici di regressione lineare per la distribuzione del potenziale dei tecnici chiave». Con quella magica parola, “Lotus 1-2-3”, facile mettere a tacere la collega. Con “regressione lineare” l’ammazzavi.
In vista dell’arrivo dei giapponesi, per qualche giorno hai avuto la precedenza nell’uso del meraviglioso IBM con processore Intel 8088 da 4,77megahertz a 16 bit e 16 kilobyte di RAM. Finito, hai stampato sui fogli in acetato con una mai vista stampante laser in dotazione al direttore, concessa in uso per l’occasione con mille raccomandazioni dalla segreteria di direzione: un portento, rispetto alle stampanti ad aghi che rintronano le segreterie di ogni ufficio.
Accendi il proiettore. Per evitare la figuraccia di mettere al contrario i lucidi della presentazione in inglese, ne provi uno sul proiettore. Sbagliato, lo ruoti. Peggio. Lo giri e lo ribalti. Giusto. Trovato il verso li sistemi nella scatola accanto al proiettore, tutti in posizione. Sei pronto a sparare. Ti sistemi il nodo della cravatta.
Sedutisi in buon ordine, i diciotto giapponesi in gessato blu si sfilano sincroni le scarpe e le allineano accanto alle rispettive poltroncine, a rivelare calze candide di bucato. Identiche, come i loro abiti. Quasi non vi fai caso, preso dai convenevoli mentre ripassi mentalmente le cose da dire, il cui succo è custodito nei lucidi in acetato di cui sorvegli, fiero, il buon ordine. La tua presentazione deve filare liscia, di fronte a quei teorici della qualità totale, del metodo Kaizen, dello zero difetti zero errori e del miglioramento continuo di cui anche tu teorizzi a man bassa durante i corsi ai capi. «Fai bene le cose la prima volta»: questo racconti sempre, e questo vuoi fare. Devi fare, di fronte a loro.
Si fa silenzio. Si abbassano le luci. Tu metti il primo lucido. Sghembo, nonostante i preparativi e le belle cose che predichi nei corsi di formazione, il Kaizen e le teorie. La rabbia ti divora. Ti appenderesti con la cravatta a uno dei fari, se solo riuscissi ad arrampicartici, lassù. Abbassi lo sguardo a sorvegliare l’uditorio: trentasei scarpe allineate a diciotto poltroncine, diciotto sagome incravattate e immobili, altrettanti sguardi impassibili, seri; trentasei occhi strizzati che squadrano ora te ora l’immagine rovescia da cui si sforzano di trarre significati. Diciotto teste si piegano di lato per provare a decifrare il lucido da un’altra visuale. Anche i loghi delle due aziende sono illeggibili. Uno dei diciotto sorrisi si schiarisce la voce, con garbo e un fazzoletto davanti alla bocca. Ti pare di udire le vibrazioni della scatarrata, nel silenzio.
Ti scusi per l’inconveniente. Ruoti il lucido due volte sull’asse delle x e una su quello delle y. Al terzo tentativo, diciotto «Ah!» di sollievo. Afferri dalla scatola la mazzetta con gli altri lucidi, la rigiri allo stesso modo e la rimetti dentro. E parti.
I giapponesi della Toyota ascoltano in silenzio il tuo inglese, attenti a quei lucidi così dritti da fare invidia al loro Taichii Ohno. Annuiscono, lo sguardo soddisfatto. Certo pensano che non sfigureresti in qualche loro circolo della qualità. Tu parli, orgoglioso di saperli proiettare come si deve, più che del loro contenuto, faticosamente collazionato in svariate giornate di lavoro.
Spieghi l’azienda, prima. La storia, la missione. I formidabili fatturati, i profitti da sogno, il differenziale competitivo, l’innovazione tecnologica, i risultati memorabili e gli obiettivi più sfidanti. Le politiche di reclutamento e di sviluppo delle risorse chiave. Poi ti addentri nel magma del diritto del lavoro. Lo Statuto dei Lavoratori, i contratti collettivi e individuali, le qualifiche e i livelli retributivi.
Hai finito. Accendi le luci. Chiedi se ci sono domande.
Spunta una mano. Il suo proprietario ti chiede in un inglese sincopato da orientale se i contratti di lavoro in Italia prevedono regressioni di carriera, oltre a progressioni. Abbassa la mano.
Dai segno di non avere capito.
«Nel senso dell’andare indietro» ti spiega in breve.
Spalanchi gli occhi, muto.
Il giapponese della Toyota ripete, questa volta nella sua lingua per andare sul sicuro, e la interprete giapponese, seduta nel buio della sala proiezioni, traduce sciolta, in italiano: «I contratti consentono retrocessioni?».
Avevi capito, dunque. La domanda era chiara. Non ti era sfuggito il contenuto specifico ma il senso generale. Il buon senso della cosa.
Rispondi che non è possibile, in Italia.
Sorvegli i trentasei occhi a mandorla strabuzzati, come se volessero uscire dalle orbite. Estrai dal plico di lucidi quattro schemi sullo Statuto dei lavoratori, li sciorini sul piano di vetro del proiettore e ti dilunghi a spiegare il nostro sistema giuslavoristico. I dirigenti giapponesi, tutti insieme come un corpo di ballo, sorridono, ringraziano e s’inchinano da seduti. Poi parlottano tra loro, seri.
Chiedi se ci sono altre domande. No, non ce ne sono. Chinano il capo, ancora. Ringraziano.
Annuisci. Ti chini sul borsone sotto il tavolo. Ne estrai diciotto scatoline. Ne apri una, come ha fatto l’amministratore delegato quando te le ha consegnate. Ne estrai una pipa, come ha fatto lui con te. Spieghi che è fine artigianato italiano. Dici che è un regalo per tutti loro.
Si rimettono a bisbigliare tra loro.
Uno dei diciotto, seduto in prima fila, si alza, con una cartella di cuoio in mano. Lento ne estrae una katana. Fa un passo avanti.
D’istinto fai mezzo passo indietro.
Il giapponese viene verso di te, con la katana in pugno, la punta rivolta in avanti.
Non riesci a staccare lo sguardo da quella lama. “Ma no, una katana è più lunga” pensi. “Questo è un tagliacarte a forma di katana”.
«Una katana per aprire le buste». Così conferma con precisione nipponica l’orientale, ormai di fronte a te, in inglese quasi perfetto. Posa il coltello sopra una scatola rossa a forma di parallelepipedo basso e ti porge l’uno e l’altra con le due mani tendendo le braccia come a reggere un trofeo di guerra, con mille cerimonie e doppio inchino. Poi ti allunga un’altra scatola, identica a quella che regge il tuo tagliacarte. «Un’altra katana» ti dice il giapponese, indicando la scatola. «Un ringraziamento per le cose che ci ha insegnato, gentile dottore» aggiunge, a testa e tronco chino. Il formalismo e la scioltezza della frase rivelano una studiata preparazione della stessa in inglese da parte del giapponese.
Ringrazi. Saluti. I diciotto giapponesi si rimettono le scarpe e sciamano via, in silenzio, ognuno salutando in inglese e con grandi inchini.
Mentre riponi i lucidi in una scatola e spegni il proiettore, pensi che due katane per te sono troppe. Forse persino una è troppo, per te che hai dichiarato di aborrire ogni forma di violenza quando hai dovuto scrivere la tua domanda di obiezione di coscienza, negli anni dell’università.
Decidi di regalare la seconda scatola, con annessa katana, al tuo capo diretto, appassionato di armi, di strategia militare e di balistica oltre che di statistica e matematica. È lui che ti ha spiegato, una sera tardi, esauriti tutti gli argomenti di lavoro, come impostare il tiro d’aggiustamento dell’artiglieria contro obiettivi non visibili o lontani. Non sei costretto a regalargli la katana, ma ti pare il minimo, per aver fatto lui il tuo nome all’Amministratore Delegato per questa bella esperienza con i giapponesi della Toyota.
Riporti le tue cose in ufficio. E vai dal capo per relazionare sulla giornata. Lui ti chiede com’è andata, arricciandosi il baffo.
«Tutto bene, dottore.»
«Ma sono stati contenti?» domanda.
«Molto.»
«Bene, lo dirò all’Amministratore Delegato.»
«Così contenti che mi hanno regalato due katane, dottore» aggiungi.
«Due katane?» ti fulmina alzando gli occhi, rossi. Iniettati di sangue, forse per il tanto lavoro.
«Due katane.»
Mugola, il capo. Piange, quasi.
«Me ne regala una, vero, dottor Barale?»
«Certo. L’ho portata apposta.»
«Ce l’ha qui?» piagnucola.
«Ce l’ho qui» confermi, estraendo dalla tua cartella di cuoio la scatola rossa.
«Ma … così piccola?» ringhia il tuo capo.
«È così» rispondi, porgendogli la scatola.
Il capo l’afferra, strappa via il coperchio, estrae con veemenza l’arma.
«Ma … dov’è la katana?» domanda, arma in pugno.
«È lì. Ha pure i fiocchetti e le corde avvolte all’impugnatura.»
«Una katana un ciufolo. È un tagliacarte» esclama, alzandosi in piedi.
«È anche un tagliacarte.»
«Dove l’ha messa la mia katana?» ruggisce, brandendola da samurai.
«Ma …» provi a dire, chiudendo gli occhi come se lui stesse per conficcarti la lama nel costato.
Riapri gli occhi e non fai in tempo a scorgere il balenare della lama che, illuminata per un attimo dall’abat-jour di design del capo, scintilla a mezz’aria. Poi scompare.
«Scherzavo, dottore» ti dice il capo, dando fuori una risata ferina mentre ripone la katana nella scatola. E ti ringrazia, porgendoti la mano per stringere le tue dita, sudate e tremanti.
Teresio Asola