Attilio Del Giudice
LA FURBATA
UN ROMANZO PICCOLO
Capitolo I
Il muro di Berlino
“A che pensi?” Disse Gerardine .”A niente” disse Toni.
Ed era vero. Ma da quel grumo livido di rabbia e di amarezza, del quale avvertiva l’oscura presenza in fondo alla coscienza, gli venne, come da un proiettore automatico, una convulsa sequenza di immagini: la mamma sul letto di morte. “lo devi proteggere, non dimenticare!”
Toni non dimenticò, ma Bruno, suo fratello, da sempre malato di endocardite reumatica, era crepato sotto i ferri, come un agnello sacrificale.
Toni aveva pagato quanto s’era pattuito: trentacinque milioni.
La segretaria del celebre cardiochirurgo non lo aveva guardato negli occhi. Nel dargli la ricevuta, aveva sussurrato: “Mi dispiace.”
Trentacinque milioni! Il risparmio di un’intera vita di lavoro, di quella povera donna.
“Per i miei ragazzi ! – diceva – per i miei ragazzi!”
Accese una sigaretta. Lo faceva sempre dopo l’amore. Una coazione, un’abitudine radicata, quasi liturgica. Ma se lo sarebbe tolto il vizio maledetto! Aveva deciso.
Anche un’altra decisione aveva preso, non meno importante: fare un bel po’ di soldi e godersi la gioventù.
Per troppi anni aveva creduto che il lavoro duro in fabbrica, la militanza nel partito dei lavoratori e l’essersi imposto di non desiderare altro che il necessario, potessero esprimere una nozione di dignità. Era stata un grande illusione,
La dignità umana. Una sublimazione laica, ma vischiosa, come un’idea mistica. Se ne doveva liberare. A tutti i costi!
S’alzò. Indossò la vestaglia e si avvicinò alla finestra.
Gerardine lo vedeva in controluce. Una sagoma forte. Un bell’uomo.
“Sei triste?” Chiese. Toni non rispose.
Era l’alba del dieci novembre dell’ottantanove.
Era crollato il muro di Berlino. Toni l’aveva sentito dai telegiornali. Una svolta della storia. “E’ finita la seconda guerra mondiale.” Aveva detto Occhetto, con gli occhi acquosi da cane buono.
Era un’alba rosata. Dal suo davanzale, in un corridoio di case color sabbia e ocra e in uno spiazzo, davanti a una chiesa in finto romanico, dove, per gioco, due cagnetti neri si rincorrevano, s’apriva una lunga prospettiva, fino al Vesuvio. Il terribile sterminatore, che, in quella tiepida alba di novembre, si ergeva da un mare di vapori e a Toni sembrò un’isola turchina dei mari tropicali.
Era la stagione del merlo e lo sentì cantare vicino. Poi lo vide: proprio sul dischetto di rigore del campo di calcetto della parrocchia. Toni sorrise. “Un uccello buffo, simpatico – pensò – e falsario nella struggente imitazione dell’usignolo.”
Da qualche mese questa idea della falsificazione, del trucco, lo intrigava.
S’era licenziato dalla fabbrica. Riprendere gli studi universitari sarebbe stata un’inutile perdita di tempo. Possedeva tre milioni, che aveva preso dalla vendita della macchina,della quale aveva pagato le prime rate e un progetto. Un progetto, studiato nei minimi particolari, che avrebbe funzionato come un orologio e lo avrebbe reso libero dal bisogno, ne era certo.
Venne a sedersi sul letto, accanto alla ragazza e l’accarezzò sotto l’orecchio, dove lei più si inteneriva.
“Come sei bella qui.” Disse.
La ragazza sorrise. “Il resto non ti piace?”
“Mi piace molto anche il resto, ma questa linea del collo è purissima, quella di una dea.” Lo disse col suo abituale sorriso ironico, ma lei lo stesso si illuminò di gratitudine.
Gerardine avrebbe fatto l’amore un’altra volta, ma era tardi.
Doveva prendere il rapido per Roma delle otto e quaranta e trovarsi sul lavoro alle quattordici, per il turno pomeridiano del sabato, che le toccava a settimane alterne. Ma, prima, doveva passare dal padre, in via Tiburtina “E’ ora, mi devo alzare!”
Il padre, la sera, aveva lasciato un messaggio alla segreteria telefonica: “Ciao Gerardine, sono papà. Puoi passare un momento? Non mi sento bene. Ti prego, vieni!”
Ma, forse, era la solita scusa per vederla. Per vedere la sua bambina, la principessina. Gli aveva preso la frenesia da quando la moglie se n’era andata e aveva avviato la pratica di separazione.
Anche la mamma non la lasciava in pace e, quando si sentivano, era sempre la stessa novena: che lui le aveva avvelenato la vita, che era un porco, che ci aveva l’amante, eccetera, eccetera.
Ma almeno quella si accontentava di sfogarsi al telefono, il padre, invece, la voleva vedere di persona. Diceva di avere pochi anni da vivere, ma, quando la vedeva, si sentiva rinascere. Una volta le mostrò una fotografia, che lo ritraeva in tuta bianca da collaudatore d’aerei, giovane e sorridente.
“Guarda! Questo era il tuo papà e ora come mi sono ridotto? Un rottame, un rottame!”
“Ma che dici? Sei sempre un gran bell’uomo!”
Lui sembrò contento, ma poi si girò e Gerardine capì che stava singhiozzando e non riusciva a frenarsi.
Non l’aveva mai visto piangere e non sapeva cosa fare e, in quel momento, avrebbe voluto trovarsi in un altro posto.
Gerardine era entrata in quell’amore per Toni come in un rifugio caldo. Un semplice operaio questo Toni, benché avesse frequentato due anni di Scienze Politiche. Ma che gliene importava! Che gliene importava di quello che diceva la mamma! Quella stupida borghesuccia vanagloriosa! Toni era dolce, Toni era intelligente e poi sapeva fare l’amore come un padreterno.
“Aspetta! Ancora un minuto. Ascoltami Gerardine!
Tre anni fa l’Espresso bandì un concorso letterario. Mi pare si chiamasse l’Espresso Inedito. I partecipanti dovevano inviare un racconto non più lungo di venticinque cartelle. Ti ricordi?”
“Sì, me ne ricordo.”
“Bene. I partecipanti furono più di diecimila. Certamente avrete schedato i titoli e gli indirizzi.”
“Credo di sì.”
“Come ‘credo’? Non lavori ai computer?”
“Toni, ci lavoro solo da sei mesi. Ma, forse, hai ragione: un dischetto ci dovrebbe essere.”
“Senti, Gerardine: questo dischetto mi serve. Me lo dovresti copiare e portare domani!”
“Toni, non corro rischi?”
“Nessun rischio! Durante l’intervallo ti attardi e ne fai una copia. E’ questione di secondi, di pochi minuti. E’ importante, Gerardine! Mi raccomando… poi, ti spiegherò, ti spiegherò tutto! Ora alzati! Che, effettivamente, è tardi.”
Un racconto breve “La furbata”, che ci trasporta in infiniti mondi e coscienze collettive: la storia di Toni, l’angoscia di Gerardine, il dramma di suo padre, la figura materna, la svolta esistenziale del protagonista, il riscatto a qualsiasi costo. Il romanzo di Attilio Del Giudice e’ lo specchio di una societa’ tormentata come quella in cui viviamo. Un bel racconto che spinge alla riflessione.
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Ogni scritto di Attilio Del Giudice è un gorgo che risucchia l’attenzione fino al punto finale. Strada facendo l’immaginario crea un film nella mente del lettore e tira fuori pure un critico cinematografico: troppi aggettivi. Ma come farne a meno! Ognuno è una inquadratura della scena che, parola dopo parola, scorre davanti agli occhi.
E il non detto, quando c’è una donna, apre lo spazio alla fantasia più di mille parole.
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Leggere storie di Attilio è come vedere di quei film in bianco e nero fatti di vita vera, cruda, intrisa di disfatte e di sogni da realizzare in cui ciascuno, spettatore o lettore, può ritrovare un una parte di se, forse anche quella invano negata.
Così nel racconto “ La furbata” un sogno, non a caso non meglio identificato, prende posto prepotente nella vita del protagonista che ne diverrà dipendente come sempre accade per chiunque ha voglia di vivere grandi cose ma solo nella sicurezza dei sogni, coltivati in ogni dettaglio giorno dopo giorno, perché , in fondo in fondo, più di quello non vuole. Insomma si appaga a sognare ma questo non lo confesserebbe mai, neppure a se stesso. Dunque una storia che, forse, lascia l’amaro ma la realtà è anche questa. Ecco dunque ciò che può accadere a leggere Attilio: guardare la realtà della vita anche nei suoi aspetti più reconditi che forse talvolta sono alche propri.
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Bravo. Attilio, come sempre. Con pochi tratti hai creato un coinvolgente clima di attesa.
E attendo la continuazione della storia, certa di non essere delusa.
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