“La pulizia etnica della Palestina” di Ilan Pappe e riflessioni sulla questione israelo-palestinese

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“[…] Come irruppero nel villaggio, i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccidendo molti abitanti. Le persone ancora in vita furono radunate in un posto e ammazzate a sangue freddo, i loro corpi seviziati, mentre molte donne vennero violentate e poi uccise. […]”

Era il 9 aprile del 1948 quando a Deir Yassin, villaggio pastorale non lontano da Gerusalemme, l’Haganà, organizzazione paramilitare ebraica attiva in Palestina durante il mandato britannico, inviò l’Irgun e le truppe della Banda Stern. Il risultato fu un massacro che non risparmiò neppure i bambini; dalla testimonianza di chi tra questi ultimi sopravvisse, dopo aver assistito all’uccisione dei propri familiari, emerse tutta la brutalità di metodi a dir poco terroristici.

Non è un romanzo, non è fiction, purtroppo. Quello di Deir Yassin è solo uno degli innumerevoli casi di villaggi arabi colpiti dalla furia sionista che Ilan Pappe prende in esame ne “La pulizia etnica della Palestina”, opera dal titolo tanto eloquente quanto inquietante pubblicata in Italia da Fazi Editore nel 2008. Nato ad Haifa negli anni Cinquanta da genitori sfuggiti alle persecuzioni antisemite in Europa, Pappe è uno storico e intellettuale molto noto nel Vicino Oriente e docente universitario in Gran Bretagna; è israeliano, anzitutto. Una voce, la sua, assai scomoda e sgradita in patria, dai cui ambienti non solo accademici sembra essere stato da tempo ostracizzato con il marchio di traditore. Eppure, Pappe non chiede altro che si faccia piena luce su quanto accaduto prima e dopo la creazione d’Israele e, pertanto, che lo stesso Stato ebraico ammetta quella sorta di peccato originale alla base della sua nascita; non stupisce il fatto che le sue parole risuonino come una pugnalata alla coscienza molto sporca dell’establishment politico-militare di un Paese che, a detta dei coloni residenti negli insediamenti dei Territori Occupati della Cisgiordania, non è tenuto a restituire alcunché, nemmeno un metro di quella terra che Dio ha concesso al popolo ebraico. Terra promessa per alcuni, terra santa per tanti, terra dannata per i troppi che sono stati costretti a lasciarla o che oggi vivono miseramente sotto occupazione, la Palestina è ben lungi dall’essere all’altezza del messaggio di pace dei propri ulivi.

Attraverso una indagine lucida, accurata, caparbia, forte inoltre della documentazione reperita tra la vergogna e la polvere degli archivi militari, Ilan Pappe ripercorre quella che tuttora nel mondo arabo continua a essere chiamata an-nakba, cioè “la Catastrofe” per eccellenza, una ferita sempre aperta nel cuore del popolo palestinese che la vive sulla propria pelle tramandandone il trauma persino alle nuove generazioni disperse nei quartieri dell’esilio di ‘Amman, Damasco, Beirut e ovunque la diaspora da oltre settant’anni a questa parte abbia condotto i loro padri. Sono pagine che offrono una lettura dolorosa, ma senz’altro necessaria e doverosa; in questi giorni in cui Israele festeggia il suo settantaduesimo anno di vita, essa acquista un significato ancor più amaro e aiuta a comprendere come non ci sia alcun motivo per cui gioire, non ne hanno nemmeno gli ebrei che forse sono i primi a non credere a una pace d’occupazione e di filo spinato, perché il sangue finisce soltanto per chiamare altro sangue in una infinita spirale d’odio e vendetta che nessun tempo potrà mai estinguere. La Storia lo dimostra, così come c’insegna che chi è stato vittima, diventa infine carnefice, e rassegnarci a tale evidenza fa molto male. Come si può chinare la testa di fronte alle atrocità che questo coraggioso storico israeliano mette nero su bianco, facendo nomi e cognomi? Si possono considerare soltanto semplici numeri le centinaia di migliaia di palestinesi espulsi nel ’48 dalle proprie case di pietra, dai propri fiorenti frutteti, dalle proprie radici secolari? Dietro ogni singolo dato ci sono persone che hanno sofferto, innumerevoli storie che ancora vagano come anime in pena in attesa di un ritorno che non solo non verrà accordato, ma neanche mai riconosciuto moralmente.

Già, perché Pappe tocca pure lo spinoso e imbarazzante tema del diritto al ritorno spettante a coloro che, trasformati in straccioni, sono stati confinati nell’umiliazione e nel fango dei campi profughi. E, senza mezzi termini, ricorre all’espressione “pulizia etnica” dal momento che persino nella documentazione militare (per non parlare degli stralci deliranti tratti dal diario di Ben Gurion) compare chiara la volontà di ripulire il maggior numero possibile di aree in modo tale da poter sostituire l’elemento arabo con quello ebraico. Fu con quest’intento, infatti, che si organizzarono attacchi sistematici ai villaggi spesso abitati solo da civili inermi, come a Deir Yassin, uccidendo e costringendo i superstiti, pena la vita, a mettersi in marcia unicamente con ciò che indossavano verso un futuro ignoto; fu così che moltissimi di quei piccoli centri vennero rasi al suolo, dopo la depredazione vigliacca di case e proprietà palestinesi, come se ruspe e bulldozer potessero cancellare la memoria e l’infamia di ciò che veniva compiuto in gran fretta. E tutto mentre gli inglesi, ancora detentori del mandato e quindi responsabili dell’ordine locale, si voltavano dall’altra parte; gli attentati dinamitardi ai loro danni, del resto, erano già iniziati da parte delle milizie ebraiche interessate a far sloggiare gli occupanti occidentali il più velocemente possibile in vista dell’accaparramento della terra. In verità, la politica britannica nel Vicino Oriente dalla Dichiarazione Balfour del 1917, senza dimenticare gli accordi Sykes-Picot dell’anno precedente, per tacere poi delle promesse fatte agli arabi, e ovviamente non mantenute, in occasione della rivolta contro l’Impero ottomano durante la Grande guerra, ha prodotto solo danni, complicando il quadro d’insieme dell’area, e la poco onorevole uscita di scena degli inglesi, sollecitati non gentilmente dalla dinamite sionista, alla metà del maggio del 1948 appare come la naturale conclusione di tutta la disastrosa vicenda. Ma, più in generale, sono la politica e la diplomazia occidentali ad avere precise responsabilità: è anche colpa nostra quanto è accaduto laggiù, colpa del nostro appeasement, sia dinanzi a Israele a partire da quel fatidico 1948 sia ancor prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale in Europa, come per esempio a Monaco nel ’38 al cospetto del führer in persona che reclamava i Sudeti dell’allora Cecoslovacchia. Certo, la Storia non si fa con i se e con i ma; tuttavia, è lecito porci qualche domanda perché l’antisemitismo da secoli ben vivo nel vecchio continente (tuttora, ahinoi!, si dimostra in ottima salute), esploso poi con il bubbone nazista, avrà pure avuto la sua parte nel rafforzare gli intenti e le convinzioni dei seguaci di Theodor Herzl.

Questo libro di Ilan Pappe, così come altre sue pubblicazioni, offre una seria occasione per conoscere e riflettere sulla drammatica questione israelo-palestinese che non si risolverà nemmeno con il grandioso – si fa per dire – piano di pace presentato pochi mesi fa dall’attuale amministrazione a stelle e strisce. Non sarà inondando di miliardi di dollari l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmud ‘Abbas, e privandola nel contempo definitivamente di Gerusalemme, che si costruirà nella regione una pace solida e duratura. Ci vorrà ben altro. Anzitutto, il riconoscimento di quel peccato originale cui si accennava sopra, senza il quale, con buona probabilità, oggi non ci sarebbero stati né Hamās a Gaza né i razzi su Sderot, e nemmeno le Brigate dei martiri di al-Aqsa o tutti quei giovani kamikaze che si sono immolati a una causa, quella della lotta armata di stampo terroristico, persa in partenza.

            “[…] Il mito della fondazione di Israele, secondo il quale appena iniziò la guerra ci fu un volontario esodo di palestinesi, fa acqua da tutte le parti. È pura invenzione che gli ebrei tentarono di persuadere i palestinesi a restare, cosa sulla quale s’insiste ancora oggi nei libri di scuola israeliani.[…]”

Pagine che sarebbe auspicabile leggessero diversi statisti nostrani, che in molti casi dimostrano di non conoscere granché della storia del Vicino Oriente, così come poco o nulla sanno di Islam (quello vero) senza che ciò impedisca loro di parlarne, e che sono però pronti a gridare allo scandalo, in nome di un sempre più ipocrita politically correct, se qualcuno si azzarda a ricordare le pratiche discriminatorie attuate da Israele, ben note e segnalate dalle stesse organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani. Viene spontaneo invitare costoro che negano o ignorano del tutto l’evidenza a recarsi in Palestina passando non dall’aeroporto di Tel Aviv, ma via terra attraverso il Ponte di Allenby dove il biglietto da visita israeliano è rappresentato dalle pistole mitragliatrici Uzi in bella mostra senza tanti complimenti, a parlare con i tassisti e gli inservienti arabi degli alberghi israeliani, a mettersi in fila ai check-points, dove i soldati fanno il buono e il cattivo tempo, e magari a spiegare a un bambino palestinese che vive a Betlemme a ridosso del muro o nelle periferie urbane della vicina Giordania il motivo per cui gli si vieta di mettere piede a Gerusalemme.

Leggendo Pappe, è inevitabile che ritornino alla mente Primo Levi – ebreo anche lui! – con quanto scriveva in “Se questo è un uomo” (“Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case […] / Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace […] / Vi comando queste parole / Scolpitele nel vostro cuore […] / Ripetetele ai vostri figli.”) e, con i suoi “passanti tra parole fugaci”, il grande poeta della resistenza palestinese, Mahmud Darwish, nativo di un villaggio della Galilea, al-Birwa, anch’esso cancellato per sempre dalle carte geografiche:

منكم السيف ومنا دمـــنا […]

منكم الفولاذ والنار ومنا لحمنـا

منكم دبابة أخرى ومنا حجر

منكم قنبلة الغازومنا المطر

[…]

خرجوا من أرضــنافا

من برنا… من بحرنا

 […]

“[…] da voi la spada e da noi il nostro sangue/ da voi l’acciaio e il fuoco e da noi la nostra carne/ da voi un altro carro armato e da noi una pietra/ da voi una bomba lacrimogena – e da noi la pioggia/ […] Uscite dalla nostra terra/ dal nostro grano… dal nostro mare […]”

 E siccome oggi è impensabile dire loro wa-nṣarifu!” (وانصرفوا), cioè “e andatevene!”, come faceva con eleganza Darwish dall’alto dei suoi versi, anzitutto per questioni di umanità dal momento che non ci si può ridurre alla stregua di personaggi come David Ben Gurion, Ariel Sharon e Yitzhak Rabin, dal cui capo Ilan Pappe ha fatto cadere qualsiasi indebita aureola, occorre trovare e mettere in atto un nuovo modus vivendi. In arabo, questo si chiama “ta‘āyush” e “tasāmuḥ”: pacifica coesistenza e tolleranza, parole storicamente non estranee alla cultura islamica, sebbene spesso ci venga raccontato tutt’altro, delle quali hanno usufruito del resto gli stessi ebrei allorché tra fine Ottocento e inizio Novecento avevano preso avvio i loro flussi migratori verso il Vicino Oriente; i palestinesi non li ributtarono certo a mare, permettendo così alle loro comunità di prosperare e porre le basi di quello che poi sarebbe purtroppo stato nel secondo dopoguerra. Naturalmente, ciò implica che, da entrambe le parti, vengano riconsiderate le rispettive posizioni e pretese. Adesso più che mai è necessario farlo, prima che la Terra Santa si trasformi senza più speranza in un infinito, decadente muro del pianto, affinché le parole “shalom” e “salām” riacquistino il loro pieno significato.

Laura Vargiu

 

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