Affondare il coltello nella realtà

copertina commedia ubriaca

Insieme a Mattanza dell’incanto del 2013 e Luce nera (Premio Camaiore 2016), Nicola Vacca chiude la trilogia della poesia del disagio, con la raccolta poetica “Commedia ubriaca (M. Saya edizioni – prefazione di Alessandro Vergari).

Se la grandezza di un’opera non si misura solo da quello che l’autore ha da dire sulla natura umana, ma anche dagli interrogativi che pone, la poesia di Nicola Vacca esercita quella forza dirompente che smuove le coscienze, apre dibattiti, decostruendo ogni convincimento.

“I libri di cui abbiamo bisogno sono quelli che agiscono su di noi come una sventura, che ci fanno soffrire come la morte di coloro che amiamo più di noi stessi, che ci fanno sentire quasi sull’orlo del suicidio, o come sperduti in una foresta lontani da qualunque abitazione umana – un libro deve essere come un’ascia per il mare di ghiaccio che è dentro di noi” (da una lettera di Franz Kafka a Oskar Pollack).

Affondare il coltello negli argomenti di cui la gente non vuole sentire parlare, interrogare la morte, l’oblio, l’angoscia, l’indifferenza, la latitanza dell’amore, è per il nostro autore non soltanto coerenza con la vita, ma coerenza all’interno di ogni singola opera e della sua produzione in divenire.

Quasi una narrazione distopica quella di Nicola Vacca in Commedia ubriaca, che si proietta in uno spazio indesiderabile di un futuro prossimo ormai già consumato, in cui il lettore mastica e deglutisce un’ipotesi spiacevole, e pur tuttavia vicinissima alla realtà.

il futuro non è più quello di una volta” “il futuro invisibile è l’abbaglio del tutto che sfugge”. Il punto di vista da cui l’autore scrive è “l’allarme che graffia i cuori degli abissi” perché il silenzio sarebbe una ulteriore istanza di appello al crimine, strizzando l’occhio al conformismo e alla viltà delle cose taciute. La silloge, suddivisa in sei sezioni, si apre con lo sprofondo nell’inferno del nostro tempo, nella inconsolabile negazione delle possibilità: “non trovo le parole […] non trovo nessun Dio […] non trovo più niente dove il vuoto è diventato l’impero dei giorni”. Persino il logos, la parola poetica sembra messa in ginocchio dall’orrore che si mangia ogni cosa nella quasi impotente ammissione che i livelli di coscienza più elevati sono senza parole e che la Poesia stessa è solitudine.

“il mondo è un Atlante di Paesi morti/ e noi siamo già morti […] mentre cerchiamo un segno di follia. “

Perché “ogni difesa della poesia è una difesa della follia (cit. Simic – Il mostro ama il suo labirinto)”.

L’apocalisse è qui ed attrae come un magnete la parola, ancorandola al male nel tentativo di disarmarla, ma “le parole non cercano una casa”, anzi esse stesse si sfaldano e si inabissano nell’atto del pronunciarsi, non per difetto di inconsistenza, nichilismo ontologico o carenza semantica, ma per “essenza di un gioco a sottrarre”.

Né la poesia né i poeti disegnano traiettorie salvifiche, perché essi bruciano soltanto domande, interrogano l’orrore e la parola, e la parola si fa “pharmakon” ed il suo stesso rovescio: veleno. La salvezza che celebra l’abbondanza del nulla.

“Di errore in errore stringiamo rapporti con l’inconsistenza” “l’illusione è l’effetto placebo che spegne il sorriso alla realtà” “il mondo è in guerra/eppure molti preferiscono non parlare di guerra” “il massacro è la regola mentre cerchiamo la salvezza nelle eccezioni”.

Nella ubriachezza del nulla e nello stermino quotidiano, ogni appello a un dio e alla trascendenza è negato; nutrire la speranza è solo una vuota illusione, è il decretarne il nostro totale annientamento vestendo la maschera dell’Utopia, su un palcoscenico di comparse già suicide prima ancora che sicarie della verità.

Ma sull’orlo del nulla il poeta indica un confine oltre il quale la bestia non osa; è questo il luogo da scavalcare e da cui aprire il fuoco, aguzzando la vista e indossando occhiali per occhi che sappiano guardare in questa era di profeti e di idioti.

Piccola è la proposta di felicità del Poeta per sopportare il peso di tutte le cadute, impossibile quanto desiderabile: cambiare prospettiva volgendo lo sguardo alla terra, alle radici che sono àncora e fulcro, immanenza e lucidità da cui è persino possibile fare un tentativo per trovare una via di fuga.

“per nuovi mondi da desiderare/ nuovi cuori per parole vere”

Adesso che non ci resta molto tempo.

Mimma Faliero

 

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