TRACCE DI UN INCENDIO

Se c’è una fiamma che non ha smesso di ardere nella vita e nell’opera di uno scrittore è quella appartenuta a Marina Cvetaeva.

Mai incendio è stato più intenso e continuo, infuocando mente, spirito e corpo; mai fervore di vita e di scrittura ha coinvolto ogni attimo, ogni pensiero, ogni gesto, ogni decisione quanto è accaduto alla Cvetaeva.

Ne Taccuini 1922-1933 (Voland ed.) sono raccolte annotazioni delle più disparate, scritte su fogli usati anche da suo marito e dai suoi figli.

Quello che leggiamo sono spunti per romanzi e poesie, promemoria di alimenti da comprare, registrazioni di denari spesi per altre faccende, note di lezioni di storia, brevi osservazioni su eventi accaduti.

Anche quando è la mano del marito Sergej Efron a vergare parole di suo pugno o quella della figlia Alja a riassumere lezioni di scuola o del figlio minore Mur a lasciare le sue tracce con la matita, tutto diventa parte di un’esistenza che non ha altri termini di paragone se non con l’inferno.

Fuggiti da Mosca dopo l’ascesa al potere dei bolscevichi, Marina Cvetaeva e la sua famiglia partecipano all’esodo che coinvolse migliaia di intellettuali russi, spostandosi tra Berlino, Praga e Parigi.

Il ritorno a Mosca, in quella Russia abbandonata in fretta quasi vent’anni prima e già devastata dalle feroci incursioni dell’esercito nazista, sarà vissuto dalla poetessa come l’inizio della fine.

Qualcosa le ha fatto presagire che la morte, a lungo fuggita durante una lunga e dolorosa peregrinazione, anche al limite della sopravvivenza, non ha abbandonato i suoi piani: l’aspetta proprio in quella terra che l’ha vista nascere, studiare, scrivere i primi versi, ricevere le prime attestazioni di stima da scrittori e poeti che hanno riconosciuto in lei la grandezza degli immortali.

Nel 1939, prima di rimettere in valigia pochi abiti e tantissimi fogli su cui tornare a lavorare in seguito, la Cvetaeva tentenna, cerca di ritardare la partenza, sospetta che gli anni dell’esilio, sebbene penosi, acquisteranno una parvenza di felicità rispetto a ciò che ancora dovrà vivere.

Le pagine di questo taccuino hanno la densità vischiosa della lotta per la sopravvivenza in cui una scrittrice che giganteggia nel panorama culturale universale è stata irretita fino a soccombere.

Leggendo, non è difficile immaginarla alle prese con le numerose fughe, con la ricerca di una casa, con traslochi in altre abitazioni per le quali pagare un affitto minore e poi restare accanto ad una stufa che riscalda poco e male, provare a scrivere nel tempo che i doveri della maternità le concedevano, assecondare i capricci del figlio, seguire la figlia nei suoi studi e infine amare, amare, amare.

Marina Cvetaeva amava disperatamente: che si trattasse della scrittura o dei figli, di Rilke o di Pasternak, delle città o delle persone che l’aiutavano nelle sempre più amare circostanze che caratterizzarono la sua vita, il suo amore ha ridotto tutto in cenere.

Tant’era potente e assoluto.

Nella prefazione curata da Pina Napolitano leggiamo cosa Efron scrisse ad un amico nel dicembre del 1923: “Marina è una persona di passioni. Molto più di prima – prima della mia partenza. Gettarsi a capofitto nel suo uragano è diventata per lei una necessità, l’aria della sua vita. Chi abbia destato l’uragano adesso non conta. Quasi sempre (ora come prima), anzi, sempre tutto si costruisce sull’autoinganno. Una persona viene inventata, ed ecco che comincia l’uragano. Se la nullità e la limitatezza di chi lo ha destato si palesano subito, Marina si abbandona a un pari uragano di disperazione. Condizione che viene alleviata dalla comparsa di una nuova persona che susciti un nuovo uragano”.

Non c’è luogo in cui la Cvetaeva possa trovare sollievo e, pur ammettendo che riesca a meno dei suoi mille incendi, è impossibile disgiungere ciò che ha pubblicato dalla costante e ostinata ricerca della vita dentro la vita.

Nella scrittura tanto quanto in ogni singolo giorno della sua esistenza ha mosso i suoi passi come in una corsa frenetica che non ha mai eluso buche, roghi, carboni ardenti; le cadute sono state molteplici, le ferite inguaribili.

Eppure non ha mai smesso di avanzare in un percorso tortuoso, faticosissimo, al limite di ogni sopportazione umana.

Da questo, dalle fiamme che lei stessa provocava e alimentava senza mai lasciare spegnere, è nata la sua opera invincibile perché si è innalzata al di sopra delle miserie, delle brutture, delle storture quotidiane, ideologiche, morali e sociali, facendo di quelle stesse miserie l’altare su cui sacrificare la felicità in virtù di uno scopo più alto: la Poesia che svela, che scopre, che demolisce le illusioni, che racconta di noi senza finzioni né abbellimenti posticci.

Le parole, scritte nel 1939, alla fine del suo ultimo viaggio a bordo del piroscafo Marija Ul’janova che da Le Havre la portò a Leningrado, sono strazianti non solo perché noi posteri sappiamo cosa le accadrà solo due anni dopo, ma anche per quanto funeste suonano in sé.

L’addio che Marina Cvetaeva scrive per quattro volte è l’espressione più ardua e onesta della consapevolezza con cui prese atto dell’epilogo di ogni speranza, di ogni prossimità di resurrezione.

“La mattina mi sono svegliata, ho pensato che i miei anni sono contati (poi lo saranno – i mesi…). – Addio, pianura!/Addio, aurora!/Addio, mia!/Addio, patria! Sarà un peccato. Non solo per me stessa. Perché nessuno – come me – ha amato tutto questo”.

Luciana De Palma

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