FEROCIA SENZA RISCATTO

La prima importante prova letteraria di Italo Calvino fu il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (Mondadori ed.). Pubblicato nel 1947 da Einaudi, fu riedito nel 1964 e corredato da una rilevante prefazione dell’autore.

La vicenda di cui si narra è ambientata in Liguria, negli anni della seconda guerra mondiale e ruota intorno ad un bambino, Pin, di dieci anni, che viene in contatto con alcuni esponenti della Resistenza.

Tutto ciò che accade a Pin sembra perdere senso e peso in confronto al contesto storico e politico che nel frattempo si muove a ritmo di ideologie contrapposte.

La sua condizione di orfano lo rende vulnerabile, a fatica si destreggia in un mondo, a volte troppo grande per la sua ingenuità, che ha perso i suoi valori e che corre verso una irreparabile disfatta umana.

Abbandonato a se stesso, conosce della vita ciò che della vita gli arriva senza filtri: povertà, miseria, degrado, solitudine, disperazione, follia.

Così, mentre sua sorella, Rina detta la nera del Carruggio Lungo, fa la prostituta, egli è in continua ricerca di qualcuno di cui si possa fidare, qualcuno che non lo picchi, che non lo cacci, che non lo prenda in giro e soprattutto che riesca a capire quel gran tormento che gli brucia le viscere.

Calvino utilizza la figura di un bambino per addentrarsi con onestà dentro quei meandri oscuri che hanno fatto della Resistenza una realtà ancora da studiare; lo scrittore non ha messo in scena un dramma eroico e tantomeno ha avuto intenzione di esaltare i partigiani, ammantandoli di vischioso romanticismo.

Attraverso una scrittura semplice e diretta, propria di chi non solo è alla prima opera, ma ha anche la necessità di rendere esplicito ciò che nei primi mesi dopo la fine della guerra doveva apparire ancora nebuloso e contorto, il ventitreenne Calvino cerca di farci sentire l’asprezza di un tempo in cui tutti aspiravano alla felicità, ma nessuno sapeva in che modo e dove trovarla.

La violenza, la brutalità, il marcio spirituale, che sono costanti nei giorni di Pin e di chiunque altro, sono fili di ferro con cui si possono tessere solo trame di spietato dolore.

Il significato dell’esistenza non fa che scivolare via dalle mani; l’unica possibilità che resta è quella di inseguire un’ombra che, pur evanescente, riesca a dare forma a un pensiero, a una sensazione, a un’idea, a un sogno, a un’illusione.

Leggiamo: “Quando ha fatto qualche grosso dispetto e a furia di ridere il petto gli si è riempito d’una tristezza opaca, Pin vaga tutto solo per i sentieri del fossato e cerca il posto dove fanno la tana i ragni. Con uno stecco lungo si può arrivare fino in fondo ad una tana, e infilzare il ragno, un piccolo ragno nero, con dei disegnini grigi come sui vestiti d’estate delle vecchie bigotte”.

Quando la prepotenza di una società allo sbando prende il sopravvento sulla semplicità di un’anima e in essa affonda la lama della crudeltà e della ferocia, a quell’anima non resta che disfarsi degli ultimi brandelli di purezza e infangarsi come tutte le anime di coloro che hanno da tempo accettato l’atrocità come misura della propria vita.

Calvino circonda idealmente Pin con una linea rossa a indicare l’impossibilità per il bambino di entrare nel mondo degli adulti, imbroglioni e ipocriti, e per gli adulti di comunicare davvero con un bambino che, avendo visto già più di quello che sarebbe opportuno, avrebbe invece bisogno di recuperare una dimensione d’innocenza ormai perduta.

L’arma che Pin sottrae a un soldato tedesco, mentre questi è impegnato in un amplesso con la nera del Carruggio, diventa improvvisamente fonte di certezza e di stabilità: pur non essendo ancora un adulto, Pin si sente tale e così per un po’ allontana da sé il vuoto che è sempre sul punto di fagocitarlo.

In questo romanzo tutto è furore, tutto è scompenso e sconvolgimento. Dovendo riportare sulla carta le infinite implicazioni della guerra appena conclusa, delle sue cause, dei suoi effetti a breve e a lungo termine, Calvino ha vinto la tentazione di edulcorare, attraverso un protagonista bambino, avvenimenti che sono stati caratterizzati da risvolti spesso oscuri, terribili e barbari.

Era necessario che la barbarie fosse visibile, anzi tangibile, che non fosse smussata e che non fosse alleggerita la portata della sua realtà.

Nessuna verità è più tale se è modificata allo scopo di non disturbare chi non ha intenzione di vederla, di conoscerla, di capirla.

Leggiamo: “Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo”.

Queste parole sono pronunciate da Kim che nel romanzo è un commissario della Resistenza. Riflettendo sui partigiani e sui fascisti, sulle ragioni degli uni e degli altri e su quello che li distingue, egli si interroga su questioni molto più profonde che non possono essere risolte né con le armi né con teorie ideologiche.

L’unica libertà possibile è quella della coscienza che non smette di sforzarsi di cercare alternative ad un futuro che continua a germogliare da un passato senza radici.

L’affermazione di Kim:L’altra parte è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili perché, anche se vincessero, […] non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi” è più che un monito: è una profezia di cui oggi vediamo gli esiti.

Luciana De Palma

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