Narrazioni sul filo della memoria

Conoscevo l’idea di letteratura e la progettualità ben focalizzata degli editori de “Il ramo e la foglia” (il loro catalogo -vedere per credere- ospita infatti autori e titoli tutti di grande interesse) ma la lungimiranza nell’aver saputo intercettare un’opera così matura e convincente come “Se camminare fa troppo rumore”, la scelta di valorizzare Giusi D’Urso accogliendola nell’editoria di qualità pur se autrice quasi agli esordi, sono meriti che dobbiamo riconoscere a questa realtà indipendente e relativamente giovane.

Devo dire che la scommessa di Maggiani e Brenna è stata ampiamente vinta perché il libro di D’Urso farà molta strada e farà parlare molto di sé.

Farà molta strada per vari motivi.

Giusi D’urso possiede quella capacità di trasformare in letteratura memorie di fatti e persone, di contesti socioculturali a lei noti fin dall’infanzia; lavora molto sulle “voci” sedimentate nei suoi ricordi (segreti, scandali messi a tacere, commenti che passavano di bocca in bocca nella piccola realtà della provincia messinese) e da questi strati di memorie attinge e inventa storie. La trama che qui ha costruito avvince non soltanto per lo scavo psicologico del personaggio principale, Sofia, che porta con sé le angosce e i traumi di una famiglia non certo idilliaca, con un padre autoritario e violento e una madre succube e dai comportamenti a volte ambigui, ma anche perché l’autrice conosce bene i meccanismi narratologici, sa dosare i fatti e sa lavorare sui tempi.

La struttura del romanzo è stata infatti costruita secondo un tempo curvo. C’è un qui e ora: siamo a Pisa, Sofia e i suoi vi si trasferiscono da un piccolo centro della provincia di Messina per motivi che si potranno intuire nel finale. C’è un tempo prospettico di tre giorni (in ospedale? Sofia è in osservazione? Cosa è accaduto? Quel che è certo è che la giovane donna giace in un letto, ci sono delle medicine, non riesce a mangiare nonostante le sollecitazioni). Forse l’impalcatura costruita da Sofia per sostenere tutto, da sola, con sforzi titanici, non è bastata. Sicuramente ha avuto un crollo psico-fisico, ma tutto è lasciato nell’indeterminatezza.

C’è qualcuno che trascrive in un quaderno i suoi ricordi, deve trovare un filo logico (è uno psicologo? Oppure è la figura simbolica di un deus ex machina che darà ordine alla storia? E la donna della finestra accanto chi è? Un doppio dell’autrice che vigila sulla narrazione?) Il clima è avvolto nel mistero, c’è un che di surreale e di inquietante che mi ha fatto ricordare in certi passaggi, quando i fatti da privati diventano esistenziali, il grande Carmelo Samonà.

E comunque, nell’arco di quei tre giorni, i ricordi di Sofia -a volte confusi, a volte contraddittori- danno forma a questo formidabile romanzo. Seguiamo Sofia, attraverso i tasselli dei suoi racconti che si ricompongono. La seguiamo in lungo e in largo per le strade di Pisa, tra i Lungarni, le Piagge, i ponti; Sofia che corre, va in bicicletta, sempre in ansia, sempre in affanno per non perdere un appuntamento, per curare il padre bipolare, per arrivare puntuale nel luogo di studio o di lavoro o per raggiungere la casa dell’amante. Sofia vive i suoi anni pisani in bilico, si accontenta di minime felicità, con ritmi convulsi e ansiogeni, simmetrici alla prosa del romanzo, fatta di frasi minime e di un periodare veloce e ondivago.

I sensi di colpa della protagonista, i suoi errori, le sue dimenticanze, il suo graduale distacco dall’amica pesano come macigni. Accanto alla figura di Sofia, ho trovato stupenda quella dell’amica Filomena (le sue lettere sgrammaticate, i suoi sogni, il suo destino avverso); Filomena rimasta in paese, che vedo come l’altra metà di Sofia, come la sua antitesi.

È una narrazione, questa di Giusi D’Urso, che mi sembra celi un’impalcatura di elementi di tipo freudiano, fatta di silenzi, di cose non dette, di cedimenti, di rimozioni o di dimenticanze. Un romanzo così ricco di eco e suggestioni che mi spinge a riprendere il libro di Giuseppe Quaranta,

“La sindrome di Raebenson” che, guarda caso, soprattutto a Pisa è stato pensato e scritto.

E per seguire anch’io i fili della memoria, ripenserò a quelle notti del 1971, (quanto tempo è passato!) quando con Francesco Orlando a Pisa, passeggiando per il Lungarno Mediceo deserto e umido, parlavamo di letteratura e del ritorno del rimosso, dei meccanismi di spostamento e di sostituzione, delle dimenticanze, di sensi di colpa e di lettere smarrite.

Mi sembra che si possa chiudere così il cerchio perfetto tracciato da Giusi D’Urso, visto che anche lei conosce bene questi meccanismi e sa farne, come nel libro che abbiamo tra le mani, alta letteratura.

Gianni Barone

(Giusi D’Urso, Se camminare fa troppo rumore, Il ramo e la foglia, 2024)

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