La mia terra

La mia terra è musa e stella. È il canto dei centomila violini, la mia terra. È il sogno ad occhi aperti, quello mai divenuto realtà. E pertanto il più lieto, formidabile pensamento.

 La mia terra è un utero accogliente, è mia madre che, d’estate, nel giardino pomeridiano gioca con me fanciullo. La mia terra è mio padre, infaticabile barbiere, che di niveo candore, di assoluto nitore, ha tinteggiato i miei anni. La mia terra è mio fratello Emidio, che sempre m’ha insegnato la pazienza, l’umanità, la bellezza. Mio fratello m’ha indicato sempre il principio di realtà e il senso del limite. Anche quando a me sfuggivano fragorosamente.

La mia terra è il riverbero del tempo, delle passate e morte stagioni, quando i miei antenati contadini, fra vigne virenti e pruneti selvaggi, crescevano le loro figliolanze. La mia terra è lo sguardo e le lacrime di mio padre, l’ultima volta che lo vidi in vita in ospedale, in quel marzo 1987, mentre la neve cadeva per strada. La mia terra è il Convento dei frati francescani, dove da bambino rosseggiai il cuore d’un carminio, d’un amaranto. È effluvio di primavera, la mia terra, nell’aria tiepida di marzo, quando il susino s’apre al cielo di bianco, felice come una giovane sposa. Io ancora oggi, di giorno, traverso piano il paese, fiorisco di nuovi, inattesi desideri, e col tormento d’esistere aspetto la prossima primavera.

La mia terra è acqua, che mi fa sentire l’umidore primordiale che è dentro di me. È cielo. E sa accogliere variopinti voli migranti. È veramente terra. E sa carpire i segreti linfatici e aromatici delle piante. La mia terra è gioco di fanciulli, giorno d’incanto, rosa d’inverno, scorza di limone, musica di uccelletti, e bagliore di rosso nella fremente alba d’estate. E nube. Nube grigio cilestrina per volare su tutte le malinconie del mondo. La mia terra è l’eterno ritorno. Il vento, si sa, fa il suo giro e ogni cosa ritorna. Torneranno le viole, il frumento, le rose. Tornerà la notte e il suo fruscio di stelle silenziose. Tornerà la luna e un viso di ragazza a imbrogliare i solchi della memoria. Tornerà l’alba coi suoi fulgori. Arrosserai il cielo di giugno e di passione avvamperai le rilucenti aurore. La mia terra è San Vito, il Santo Patrono, che in piazza sventola bandiera rossa. San Vito dalla secolare colonna richiama in primavera e in estate voli leggeri di rondini ribelli, libertarie e anarchiche, e lontani canti d’amore. La piazza è ubriaca di sole, popolata di lavoratori indocili: nei loro occhi accesi di passione brillano desideri inarrivabili in dolci matrone dai seni prorompenti.

 La mia terra è sempre un fruscio di parole, un proscenio placido scintillante di colori, un privilegio da vivere, e noi passeggeri del ricordo stazioniamo ai margini d’una assenza. Lequile, la mia terra, mi fa di continuo assaporare il ricordo dolceamaro di ciò che fu. Qui mi sono rifugiato con le mie muse, con loro ho calpestato i viali del sentimento. Tutte le mie muse mi hanno svelato il significato profondo della vita, la ragione stessa delle stelle. Conservo dentro me gli occhi di ciascuna di esse. E indosso ancora le camicie che mi hanno donato.

La mia terra è la notte, per me magica, che m’avvolge come una coperta morbida. La notte. Luogo d’elezione di anime indocili, la notte, gemma cobalto, melodia di stelle. Di notte, lei ordiva inganni e si trastullava con giochi da niente, con i suoi artifici di piccola pazza d’amore. I galli di luglio cantavano le tristi nenie del disinganno. Lei era la risacca del mare, un faro di bianca illusione, la fresca tramontana nell’estate irrespirabile. Era lei un sentiero di luna da leccare con lingua di fuoco.

La mia terra è rosa di marzo, è viola d’incanto, è iride di fuoco, è gioia bambina. È l’amore esploso che fa barbagli di sé. È l’aurora che nasce e spruzza il cielo di rosso e il tuo dolce viso di pesca.

La mia terra è il risveglio del giorno.

 Marcello Buttazzo

(In copertina un’opera di Giuseppe De Nittis)

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