
Al dolore appartiene la poesia più profonda, più tenace, più solida. Il dolore è il tempo dell’eternità e dell’universale. Attraverso il dolore si svela la grana del mistero e, sebbene nessun significato appaia più comprensibile e nessuna verità diventi più sopportabile, si ha l’impressione di essersi avvicinati un po’ di più alla vetta dalla cui sommità i vasti spazi dell’esistenza possono almeno essere afferrati in un unico colpo d’occhio.
Il libro Chiodi (Casagrande Edizioni)che raccoglie le poesie della scrittrice ungherese Agota Kristof, nota soprattutto per il romanzo Trilogia della città di K, è una mappa drammaticamente precisa dei sentieri che si snodano da un’anima ferita verso quella vetta, conducendola a zigzag tra le guglie di una coscienza che non perde mai di vista la genesi della sofferenza.
Eppure questi versi non rappresentano, e non possono farlo, alcuna catarsi dalla sofferenza stessa: essi sono i chiodi di cui l’autrice si è servita per fissare sulla parete della sua vita ogni istante, ogni immagine, ogni vibrazione, ogni tumulto che ha contraddistinto i suoi giorni.
Non c’è salvezza, non c’è catarsi, non c’è resurrezione, solo bisogno estremo di guardare bene in faccia il dramma per attraversarlo, per farsene attraversare.
Nel 1956 Agota Kristof, ventenne, fugge dall’Ungheria insieme a sua figlia di quattro mesi, abbandonando i quaderni su cui aveva scritto le sue prime poesie. La lotta contro l’oblio si traduce in una strenua volontà della memoria con la quale la scrittrice cerca di recuperare i versi perduti e, là dove l’impotenza del ricordo fa vacillare l’anelito alla sopravvivenza, ecco che subentra la possibilità di reinventarli.
Nel 2017 le Éditions Zoé pubblicano tutte le poesie dell’autrice, realizzando, anche se in ritardo, il suo desiderio di vederle riunite in un libro.
Le poesie pubblicate in Chiodi hanno il sapore della sabbia del deserto che prosciuga la linfa vitale, che soffoca il seme, che rallenta i passi, che inasprisce la speranza. Ognuna di esse racconta un frammento di storia che mai più potrà avere un lieto fine poiché, nell’attimo in cui la storia stessa è deflagrata, tutto ha perso intensità, propulsione, sapore e luce.
Leggendo, intuiamo però che non è ad un lieto fine che la scrittrice e poetessa ha mai avuto intenzione di condurci: piuttosto la sua scrittura, scabra e ruvida, è stata usata per scendere in profondità, avanzando in verticale dalla superficie levigata e corrotta della realtà verso il nucleo del male, il centro ribollente in cui il dolore fluttua come magma ancestrale.
Se la poesia non è mai luogo di salvezza, ma solo di atroce quanto straordinaria consapevolezza, allora quella praticata da Agota Kristof è una poesia che rifiuta con lucida caparbietà sia la salvezza sia l’illusione che mai diventerà una strada per arrivarci.
‘Ricordatevi di me alberi bianchi/occhi scuri scuri/ricordatevi di me solo i muri/mi sono rimasti attorno ma nemmeno loro/mi amano/e le ombre entrano dentro inutile/che io chiuda la porta non hanno volto/stanno ferme e mi guardano/e chiedono perché piangi non ti ricordi/io di cosa io di chi e le ombre ridono/con le loro tristi mani incolori/ …’
Nelle poesie di ‘CHIODI’ il bianco è spesso il colore della morte, dell’abbandono, dello spaesamento, della sconfitta; è una dichiarazione di ribaltamento del senso che ha perduto il suo candore e che non è più capace né di rassicurare né di addolcire.
Ogni verso ha terminazioni spigolose che non accompagnano il lettore verso quello successivo con la soavità di una poesia scritta per consolare, ma con l’asprezza di chi non può mistificare il vero compito della poesia, il suo più sublime fine, ovvero quello di squarciare il buio e trarne un buio ancora più fitto, più denso, più compatto.
La finzione letteraria non appartiene ad Agota Kristof così come non le è appartenuta quella esistenziale. Nulla può svelare il significato più recondito, se prima non si accetta di dover affrontare i frutti che il seme dell’oscurità ha fatto germogliare nella carne.
Quale valore, dunque, può mai avere quella bellezza che rifiuta di accompagnarsi all’urgenza della verità? Cerniera tra bellezza e verità sono quei versi che non lasciano niente di intentato e che ancora e ancora provano a tirar fuori, a mani nudi, il fardello della storia che richiede partecipazione attiva, concreta, sofferta, a volte disperata.
‘Lentamente imbianca la notte sul viso senza sole/incessanti le stelle cadono/in profondi laghi scuri cadono/e in profondi boschi cadono/le stelle’ …
L’estrema certezza è nella voragine che incombe e che a un certo punto si spalanca, inghiottendo tutto, persino la certezza stessa; tuttavia non si cancellerà la sensazione di aver sfiorato, annusato, adocchiata seppure da lontano la meraviglia di aver potuto cogliere in una notte senza stelle un unico, brevissimo fulgore. Quello che la poesia lascia quando consente ai poeti di avvicinarsi alla fiamma, senza bruciarsi.
A chi una volta chiese ad Agota Kristof se non vedesse un po’ di luce in fondo al tunnel, lei rispose: “Assolutamente no”.
E questo no sa di dolore, di tragica perdita, ma anche di ostinata libertà.
Luciana De Palma