
Leggere la Recherche è sempre una scoperta: nulla relativo alla sfera dell’umano sfugge all’occhio preciso e chirurgico di Proust. Una tematica che mi pare una sorta di leitmotiv di All’ombra delle fanciulle in fiore è la riflessione sul difetto, la sua imprescindibilità dall’indagine intorno all’uomo; nemmeno la natura nel suo senso più universale ne è esente, anzi, la costante del difetto definisce il tutto, nel suo perenne mutare e divenire. In sostanza, ciò che appare a occhi superficiali come difetto altro non è che la qualità intrinseca della finitezza degli esseri e delle cose. Di difetto si potrebbe parlare in riferimento all’impari relazione tra tempo e memoria, l’ultima incapace di abbracciare l’infinito scorrere universale e costretta, semmai, a uno sforzo impossibile teso a fissare ciò che è eternamente provvisorio e a un vano adeguarsi al cambiamento fino ad accettare l’unica possibilità, ovvero accontentarsi di piccoli sprazzi di eterno tramite suggestioni significative nella consapevolezza di un’enorme disparità: «la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, in un improvviso piovasco, nell’odore di chiuso di una stanza, nel profumo di una prima fiammata».
Di conseguenza, l’arco limitato della vita umana o ancora l’afflato artistico che tenta di trasporre in parole e forme l’immensità percepita del reale, non potrà che conformarsi alle regole di volta in volta codificate a partire dall’attuale modello sociale di riferimento per ridurre la complessità a un ordine fittizio, un’armonia a misura d’uomo dove «tanti anacronismi interferiscono nel susseguirsi dei giorni» e, nonostante tutto l’impegno, non si potrà che raccogliere vivere e raccontare l’esperienza soggettiva in maniera simbolica e poco cronologica.
Inevitabilmente, la comprensione del dispiegarsi delle cose nello spazio e nel tempo e la sua rappresentazione sarà influenzata dai meccanismi di adeguamento della percezione alla realtà e inficiata dalla pretesa di «voler mostrare le cose soltanto come immerse nella realtà circostante, e per conseguenza di sopprimere l’essenziale, l’atto mentale che le ha isolate da essa».
L’uomo è la manifestazione più lampante della difettosità che caratterizza l’universo più o meno visibile e Proust con la sua finezza, l’ironia, la penetrazione è un maestro nel disegnare personaggi che rendono conto di ciò. Ci sono pagine intere in cui vengono presentate carrellate di tipi umani che, nonostante le qualità interiori o esteriori, sono sempre guastati da odiosi difetti: l’intelletto è controbilanciato dalla sbadataggine o dalla superficialità; a fronte di una spiccata sensibilità la personalità può essere caratterizzata da tendenza alla simulazione; l’uomo sincero non riesce a fare a meno di essere permaloso; il generoso diventa facilmente irascibile e rancoroso; il disinteressato curioso, e mai un individuo è del tutto migliore dell’altro apparendo invece solo un coacervo inestricabile di virtù e difetti. Questa peculiarità fa sì che i personaggi, specie quelli minori, siano paradigmatici eppure mai piatti, anzi. Per esempio, monsieur de Norpois con le sue contraddizioni incarna l’intellettuale superficiale e snob, il politico di successo vacuo e pressapochista; anche l’omosessualità di Palamède de Guermantes, Baron de Charlus rischia di essere vista come difetto in seno a una società che non riconosce ancora la liceità di un orientamento sessuale fuori dagli standard; per converso, il Baron de Charlus si mostra molto indulgente nei confronti dei difetti delle donne realizzando una sorta di simmetria. A proposito di personaggi minori, Bloch possiede il difetto della volgarità mentre Bloch padre che apertamente disprezza il talento dello scrittore Bergotte, fingendo poi di possedere un Rubens e soprassedendo sulla sua situazione finanziaria, ha quello dell’avarizia, il difetto più funzionale al riconoscimento sociale: «L’avarizia infatti non toglie nulla al prestigio essendo un vizio e di conseguenza è riscontrabile in tutte le condizioni sociali».
Da tale corredo naturale d’imperfezione non è esente nemmeno la bellezza, al contrario, da essa ne fiorisce un vero e proprio tripudio: «la bellezza è una serie di ipotesi che la bruttezza riduce sbarrando la strada che vedevamo già aprirsi sull’ignoto».
D’altronde, nessuno è perfetto e l’altro è sempre il riflesso di noi stessi: ci innamoriamo delle virtù che ci mancano, critichiamo la nostra stessa lacuna esercitando «compiacente ostinazione a non vedere il difetto del nostro amico (…) superata da quella che egli pone nell’insistervi».
In fin dei conti, «Nel genere umano la frequenza di virtù identiche in tutti non è meno strabiliante della molteplicità dei difetti particolari a ciascuno». Si potrebbe tranquillamente affermare che il difetto non sia altro che ciò che la cultura cristiana e diverse altre dottrine definivano peccato o vizio capitale. Proust restituisce dignità al un difetto/vizio capitale/peccato riconoscendogli una funzione quasi di equilibrio e armonia, un esempio fra tutti la bistrattata invidia: «Anche nei casi in cui il moltiplicarsi di esigui vantaggi personali dovuto all’amor proprio non basterebbe ad assicurare a ciascuno la dose di felicità che gli è necessaria, superiore a quella accordata agli altri, l’invidia è là per colmare la differenza».
A ogni modo, non sarebbe scorretto concludere che nel difetto la cui varietà «non è meno stupefacente della similarità delle virtù» si realizzi una sorta di compenetrazione tra opposti.
Non a caso, Proust cita più volte il Giotto di Le Virtù e i Vizi della Cappella degli Scrovegni a Padova. Per esempio, Albertine che gioca a diabolo sulla spiaggia di Balbec viene paragonata all’Infedeltà: «facevo due passi con Albertine che avevo scorta, mentre innalzava in fondo ad un cordoncino un attributo bizzarro che la faceva somigliare all’Idolatria di Giotto; si chiama, del resto, “diabolo”, ed è attualmente caduto in disuso che, davanti al ritratto di una fanciulla che ne abbia uno, i commentatori dell’avvenire potranno dissertare, come davanti a una figura allegorica dell’Arena, su ciò che essa ha in mano.»
Anche qui si configura un capovolgimento: il vizio dell’infedeltà associato alla purezza delle fanciulle in fiore, mentre ne La strada di Swann la virtù della giustizia richiama il «viso grigio e meschinamente regolare era quello stesso che, a Combray, caratterizzava certe graziose borghesi secche e devote che vedevo alla messa».
Pare che nei progetti di Marcel Proust un intero capitolo della Recherche si dovesse chiamare proprio «Les vices et les vertues de Padoue et de Combray».
Se l’impossibilità di cogliere il processo di mutamento temporale e la finzione esercitata nella sua rappresentazione caratterizza l’impari relazione tra memoria e tempo, così, la scalfittura che intacca inevitabilmente la perfezione dell’oggetto amato facendo sì che non ci si attagli a un unico oggetto caratterizza la relazione tra amato/amante; l’immutabilità, ovvero mancanza di fantasia/elasticità della mente, sarebbe più di un difetto, un vero assurdo. Una mancanza nella relazione, un’incompiutezza sembra essere motore e innesco primigenio del sentimento che scatena «quella tristezza, quel senso di irreparabile, quelle angosce che preparano l’amore». Il passato di Odette de Crecy potrebbe sembrare una macchia incancellabile, eppure forse è proprio di quello che s’innamora m. Swann, tant’è che quando quell’amore si normalizza piano piano si estingue.
Così come la matura madame Swann sotto la sua bellezza che la fa somigliante alla Madonna del Magnificat di Sandro Botticelli cela una dubbia condotta morale, così la bellezza e piacevolezza delle fanciulle che rivela in «un naso grosso, una bocca prominente, una grandezza che avrebbe lasciato increduli ma che in realtà se ne stava dietro le quinte» lascia trapelare una sciagura futura svelando una veste esteriore già corrotta all’interno e destinata a perire. Basta guardare più da vicino quei volti perfetti per scorgere «una pelle rovinata, una imperfezione delle alette del naso, uno sguardo banale, la smorfia di un sorriso, una figura sgraziata» e rendersi conto che prima o poi gli «esseri che ci sono sconosciuti (…) ci obbligano a disancorarci dalla vita abituale dove le donne che frequentiamo finiscono per svelare i loro difetti».
In definitiva, il difetto è la vera natura umana, fa parte dell’arte perfino, difettosa trasposizione della realtà esteriore o interiore dell’artista, però quello artistico dev’essere difetto sublime, di più, originale, ché le copie risultano sempre brutte se non restituiscono splendida trasposizione metaforica, proprio come le marine dipinte dal pittore Elstir il cui «fascino consisteva in una sorta di metamorfosi delle cose rappresentate, analoga a quella che in poesia si chiama metafora».
L’arte non scopre né fa progressi, mette in luce piuttosto leggi e relazioni esistenti mostrandole o rovesciandole, proprio come fa Proust nella sua sublime Recherche.
Giusi Sciortino
Un pensiero su “Il tempo perduto o l’elogio del difetto”