
L’uomo che guardava passare i treni– che uscì in Francia nel 1938 e in Italia, prima nel 1952 con Mondadori, poi dall’86 con Adelphi – è una partita a scacchi con la vita.
Il protagonista, Kees Popinga, conosce bene quel gioco, meno bene la vita, ma sarà appunto la vita a fargli scacco matto con una mossa imprevista per i suoi troppo rigidi schemi. Dire Simenon significa dire romanzo giallo, non foss’altro per quel Maigret felicemente trasportato anche in narrazioni cinematografiche e televisive, compresa quella italiana con Gino Cervi (nonostante una declinazione troppo “domestica” da parte degli sceneggiatori, con veri e propri tradimenti: vedi il personaggio di Louise, alias la signora Maigret, lontana le mille miglia da quella di Simenon). Simenon non significa però solo giallo, tantomeno, solo Maigret. Una delle dimostrazioni più felici sta in questo romanzo che lo scrittore belga centra su un grigio borghese, manco a dirlo, marito e padre rispettabile, cui, un bel/brutto giorno crollano tutte le certezze che manco Nietzsche.
Un fatto inaspettato porterà il nostro grigione (che stimola perfino tenerezza per la sua candida ingenuità) a imboccare una direzione inaspettatamente contraria alla sua. Da quel momento, Popinga inizierò un viaggio, anzi una fuga, che lo porterà dalla provincia olandese – in cui tutto ha inizio – alle mille luce di Parigi.
Ma è anche un viaggio mentale: ovvero, un abbandono dell’immagine di sé, costruita finora, per la ricerca di qualcos’altro a causa dell’imprevisto. Cosa ci si aspetta da Simenon? Almeno un omicidio (come nei più noti romanzi di Dostoevskij). Ed eccolo, l’omicidio, seppure non come focus della narrazione – come nei romanzi della Christie – ma come una sorta di quasi “naturale” conseguenza nel totale rovesciamento di quella scacchiera sulla quale Popinga era abituato a muovere i suoi pezzi: ovviamente, sempre bianchi.
Pino Casamassima