Tra il mito americano e la realtà dilagano i libri di McCarthy

Charles McCarthy (in arte Cormac in omaggio all’antica leggenda medievale di Lord Cormac Laidir MacCarthy, signore irlandese di Muskerry) è l’icona vivente che incarna forse più di ogni altra figura del panorama letterario il paradigma dello scrittore americano, non soltanto per lo stile linguistico e per la storia personale. Piuttosto perché nella sua scrittura convergono il tono narrativo potente, improntato alla paratassi, che fu di Melville, l’approccio di analisi umana denso e simbolico di Scott Fitzgerald, il disincanto di Fante, il tempo sospeso di Carver, la prosa essenziale di Hemingway. 

Cormac McCarthy è un figlio dell’America profonda, epica forse ma indubbiamente dura e spietata. Nato a Providence ma cresciuto in Tennessee, di quella immensa pianura assorbe il senso dello spazio, dell’infinito e del silenzio che balenano a volte nei suoi romanzi, soprattutto nella Trilogia della frontiera (Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura) e poi in La strada. Un senso dello spazio che diventerà nel corso del tempo un vero e proprio amore per i deserti. 

Dopo una gioventù inquieta, in cui nonostante le borse di studio abbandona a più riprese l’università (e una volta finanche per arruolarsi nell’esercito), verso i trent’anni decide di fare lo scrittore, e per questa ragione sua moglie Lee lo lascia dopo pochi anni di matrimonio e un figlio. Il primo romanzo che pubblica, nel 1965 grazie all’interesse di Albert Erskine, è Il guardiano del frutteto, libro che vince un premio importante il cui ammontare è speso da McCarthy per finanziarsi un soggiorno in Irlanda, la terra degli antenati. In viaggio conosce Anne, la cantante della nave, che entro un anno diventa la sua seconda moglie. Ecco, cosa c’è di più “americano” già negli esordi?

Tre anni dopo pubblica Il buio fuori, il libro forse più sottovalutato di McCarthy: la storia di un fratello e una sorella che vivono ai margini della società. Lei partorisce un bambino che il fratello, e padre del neonato, abbandona nel bosco. Le pagine raccontano aneliti di speranza e abissi di colpa per i quali non può esserci perdono. La trama si sviluppa in uno stile narrativo di straziante splendore, frammisto a una sottile ironia come a voler significare la grottesca natura del Male. Poi, nel 1973, esce Figlio di Dio, un romanzo tremendo, spietato, in cui prende forma definitivamente la scrittura che contraddistingue l’autore. Dialoghi asciutti, serrati, privi di segni d’interpunzione. Crudezza descrittiva nel rappresentare il protagonista non tanto come “il criminale” quanto invece come lo schianto, il fallimento dell’uomo dentro quell’apparato perfetto che chiamiamo natura. Segue, nel ’79, il vero capolavoro di un McCarthy ancora sconosciuto al grande pubblico, Suttree. Ambientato in Tennessee, narra le vicende di un uomo che, come dice la sinossi di copertina del libro, per viverepesca pesci gatto nelle acque limacciose del fiume Tennessee. E sul fiume vive, in una baracca galleggiante ai margini della città di Knoxville, fra ratti reali e metaforici. Ci si è trasferito dopo aver abbandonato un’esistenza di privilegi borghesi e pastoie religiose; l’ha fatto per vivere. Ora nel suo nuovo mondo impara ciò che il fiume insegna: che nel tutto in movimento – quel flusso ora grigio, ora bruno, nero, marrone, color peltro, ardesia, inchiostro o carbonio della cloaca maxima – «il colore di questa vita è acqua» e perciò solo «le forme più primitive sopravvivono». Alcune di esse finiscono impigliate nelle sue reti di pescatore e, volente o più spesso nolente, Suttree deve tentare di portarle in secca, magari immergendosi con loro in liquidi a più alta gradazione. Prima fra tutte la forma di uno spassoso troglodita come Harrogate, giovane topo di campagna con una passione contronatura per i cocomeri e una determinazione tanto candida quanto feroce a trasformarsi in ratto di città. A fianco di questo novello Huckleberry Finn e dei suoi guai Suttree impara altri colori dell’infinito scorrere. Un prisma che si accende di tonalità disparate: il vermiglio del sangue che segna il corpo gigantesco del nero Ab Jones nella sua impari resistenza alla discriminazione razziale e l’oro smorto dei capelli della puttana Joyce nella sua scalata alla società, il nerobluastro della pelle antica della strega Mother She e il viola frusciante dell’abito da sera dell’androgino Di Fiore In Fiore. Il cenerino dei tanti vecchi, il rubizzo dei tanti ubriachi. Molti i colori che si spengono, inghiottiti da una città in piena trasformazione, un «accampamento dei dannati» che, stritolato, stritola. Ulisse americano, Suttree osserva, partecipa, sbaglia e infine impara la più lapalissiana, la più vitale delle verità, «che di Suttree ce n’è uno e uno soltanto».

Passeranno anni prima che un nuovo libro di McCarthy sia presente in libreria: è il 1985 quando esce Meridiano di sangue, il più grande western mai stato scritto e il libro più “americano” sulla frontiera che esista. L’autore, con una ineffabile capacità narrativa, sembra presentare un gioco di sovrapposizioni e specchi in cui sono presenti un falso e un vero protagonista, un ragazzo crudele e un giudice traviato. La trama riporta al 1850. Al confine tra Stati Uniti e Messico una banda di cacciatori di scalpi lascia dietro di sé una scia di sangue, sullo sfondo di una natura grandiosa e impassibile. Li comanda il corpulento giudice Holden, «enorme, bianco e glabro come un infante smisurato»: un predicatore e filosofo dei deserti che trascina con sé una corte di spostati, mezzosangue e reietti armati fino ai denti, in una spirale di ferocia e morte. Con loro c’è anche un ragazzo quattordicenne: sarà quella la sua iniziazione alle spietate leggi del West, tra agguati, lunghe marce, bivacchi desolati, notti di bagordi. In questo libro, che salda il debito con le suggestioni riportate dall’influsso di Faulkner, raggiunge la sua dimensione più compiuta l’ossessione di McCarthy per l’orrore e la violenza. Esplora dunque il mistero del Male quale limite che la condizione umana porta dentro di sé, con parole terribili che sembrano evocare i massacri delle battaglie omeriche. Strappavano i vestiti ai morti e li afferravano per i capelli e passavano la lama indifferentemente intorno ai crani dei vivi e dei morti e strappavano via le capigliature insanguinate e tagliavano e mutilavano i corpi denudati, staccando membra, teste, sventrando quegli strani torsi bianchi e levando in alto grandi manciate di viscere e genitali. Alcuni dei selvaggi erano talmente pieni di sangue che avrebbero potuto rotolarcisi dentro come cani e altri si gettavano sui morenti e li sodomizzavano lanciando alte grida ai compagni. La reiterazione della congiunzione “e” rappresenta una caratteristica lessicale di questo libro, che in qualche modo accentua il ritmo ossessivo di molti dei passaggi più crudi. Ai quali, però, si alternano diastoli quasi esoteriche, sciamaniche. Presso quel fuoco c’erano uomini i cui occhi riflettevano la luce come carboni ardenti conficcati nel cranio e uomini i cui occhi rimanevano opachi, ma gli occhi del nero si aprivano come corridoi attraverso i quali una notte nuda e primordiale viaggiava da ciò che di essa già si era consumato a ciò che era di là da venire. Oppure ancora: Uno dopo l’altro, cominciarono a levarsi di dosso gli abiti, gli impermeabili di pelle non concia e i serapes di lana greggia e i panciotti, e uno dopo l’altro propagarono intorno a sé un gran crepitio di scintille, e ciascuno sembra avvolto da un velo di fuoco chiarissimo. Le braccia che si sollevano nell’atto di togliere i vestiti erano luminose, e ognuna di quelle anime oscure era avviluppata dentro una percettibile sagoma di luce, come se fosse stato sempre così. La critica americana, che a differenza della nostra è davvero indipendente, a questo punto definisce McCarthy “degno discepolo di Melville e di Faulkner” e Harold Bloom scrive che Meridiano di sangue è un “autentico romanzo americano apocalittico” e che “nessun altro romanziere americano vivente, neanche Thomas Pynchon, ci ha regalato un libro tanto possente e memorabile.” Un libro che gli apre le porte dell’empireo americano della scrittura, ma continua a condurre un’esistenza schiva, solitaria, dedicata quasi interamente alla scrittura. Sono le parole a sostenerlo. Espressioni ancestrali, terribili, semplici ed eterne, piccole, ossidate dal tempo, ma che sostanziano l’umanità e la sua storia.

Nonostante il successo McCarthy quindi non si lancia, come invece accade da noi per molti autori, a sfruttare l’onda favorevole. Bisognerà attendere il ’92, anno in cui peraltro vince il National Book Awards, perché sia pubblicato Cavalli selvaggi, primo romanzo della Trilogia della frontiera. Un romanzo di formazione che racconta il percorso di crescita del diciassettenne farmer John Grady Cole in un’America presentata come disumanizzata, dopo la Seconda Guerra Mondiale, dove non c’è più il rispetto della legge né dei valori umani. Si tratta di un western sui generis, malinconico, cupo, e descrive la presa di coscienza del ragazzo rispetto all’inevitabile avvento della modernità che spazza via quel mondo di cowboys in cui lui vorrebbe disperatamente vivere. Sullo sfondo McCarthy disegna una frontiera del tutto nuova, tecnologica e spersonalizzante, che deve affrontare le conseguenze psicologiche del conflitto appena terminato e che non ha più nulla del vero spirito di frontiera desiderato da John Grady. Rimpianto e insoddisfazione pervadono tutto il romanzo, conseguenze della fine di un’epoca e dell’impossibilità di vivere la vita come lui vorrebbe. Non è un romanzo facile da leggere, non per tutti. Il ritmo della narrazione è volutamente rallentato, i dialoghi limitati all’essenziale, alcune scene sono poco verosimili. Ma la scrittura è superlativa, con acuti di prosa lirica straordinari.

Segue, nel ’94, Oltre il confine, con un diverso protagonista, Billy. Qui lo stile asciutto e paratattico di McCarthy trova una nuova forma d’espressione, aprendosi a una sorta di metanarrazione dove hanno vita numerosi racconti e riflessioni di personaggi secondari che il protagonista incontrerà lungo il cammino. I loro pensieri affrontano una pletora di argomenti differenti e si sostanziano in monologhi intervallati da brevi risposte di Billy. Un espediente narrativo che troverà organica compiutezza in Non è un paese per vecchi, ma che in questo romanzo ha la sola finalità di sostenere elementi di natura quasi filosofica. La Trilogia si completa nel ’98 con Città della pianura, dove i due protagonisti dei libri precedenti, Billy e John, si incontrano. Insieme ad altri cowboys trascorrono le proprie vite a cavallo, a caccia oppure seduti intorno al fuoco a raccontare storie della frontiera. La loro è una vita spartana, con pochi divertimenti e tra questi c’è l’andare a puttane, ma John si innamora di una di queste e decide di sposarla. Ingaggia con Eduardo, il protettore, un duello dal sentore metafisico tra i vicoli della città, accompagnando i fendenti delle lame con le loro diverse idee sul mondo e sulla vita. Perché ciascuno dei due non è solo un rivale, ma un vero e proprio universo esistenziale contrapposto all’altro. Da un lato l’idealismo e l’ingenuità giovanile di John, dall’altro il materialismo e la spietatezza dell’adulto Eduardo. 

Dopo la Trilogia, McCarthy, che intanto ha una terza moglie, lascia passare ancora degli anni prima di pubblicare. Nel 2005 esce finalmente Non è un paese per vecchi. Il titolo del romanzo deriva da un verso di Sailing to Byzantium di William Butler Yeats, e trova il suo senso in una declinazione emotiva tra la rabbia e il rimpianto, che aleggia in tutta la narrazione e si sostanzia nella figura dello sceriffo di provincia ostinatamente nostalgico, ma anche nelle recriminazioni sociali espresse da qualche altro personaggio. 

La trama inizia quando un vicesceriffo ferma e ammanetta un tipo equivoco che ha in auto una pistola da mattatoio alimentata da una bombola. Mentre telefona allo sceriffo dà le spalle al tipo, che con un guizzo delle braccia ammanettate strangola l’agente e poi con altrettanto sangue freddo ferma un’auto di passaggio, uccide il guidatore, gli ruba la vettura e scappa. Nel frattempo Llewelyn Moss, un veterano del Vietnam, è a caccia nel deserto quando scorge tre pick up con intorno tanti cadaveri. I veicoli sono crivellati di colpi e hanno le gomme a terra: sembra un regolamento di conti nell’ambiente del traffico di droga. Seduto al volante di uno dei mezzi c’è un uomo gravemente ferito. Gli chiede acqua, Moss non ne ha. Il cacciatore però scorge tracce di sangue che si allontanano nel deserto, le segue. Conducono a un altro cadavere, accanto al quale c’è una borsa di cuoio piena di soldi. La prende e si dilegua, ma da quel momento il sicario e lo sceriffo gli daranno la caccia. 

Il fulcro del thriller è la differente percezione della moralità: sentita, equivocata, calpestata a seconda del personaggio, lungo una linea immaginaria che va dal “buono” (lo sceriffo Bell) all’ambiguo (Moss) per arrivare al “cattivo” (il sicario). Non è una banale semplificazione, è invece l’allegoria dell’esistenza dentro la descrizione disincantata del Texas degli anni ’80, fatto di scenari naturalistici struggenti e abitati desolatamente banali, autostrade e motel, fuoristrada e mitragliette, anacronismi e modernità. Le riflessioni profonde dello sceriffo, che organicamente intervallano in corsivo la narrazione, sono un contrappunto, uno spazio etico di ricerca del senso in un mare di armi, sangue, morti, dove si staglia la figura allegorica del sicario, tanto spietato e crudele da sembrare il demonio. E, come il demonio, non si sa che aspetto abbia perché nessuno sopravvive per raccontarlo.

La trasposizione cinematografica fa conoscere il libro e il suo autore in tutto il mondo, il che comporta la traduzione e la pubblicazione dei romanzi precedenti. A buona ragione Cormac McCarthy viene finalmente riconosciuto (persino in Italia dove dopo Sciascia e Calvino la qualità della produzione letteraria fa registrare una impasse) per quello che è: uno dei più grandi scrittori di sempre.

La consacrazione definitiva giunge con La strada, del 2006, che l’anno successivo vale all’autore uno dei riconoscimenti letterari più prestigiosi e meno “inquinati” del mondo, il Premio Pulitzer per la narrativa. Di ambientazione post-apocalittica, è un romanzo che può essere anche definito distopico come Cecità, Fahrenheit 451 o 1984. Ma è il libro che ridefinisce il perimetro strutturale della prosa di McCarthy, deprivando la scrittura da ogni elemento che vada oltre l’essenza pura dei sintagmi e della sintassi: non solo nessun segno d’interpunzione nei dialoghi, ma nemmeno la scansione in capitoli. Neppure i personaggi hanno un nome, sono semplicemente “il padre” e “il figlio”.

La trama si svolge in un mondo desertificato. Non ci sono animali, le piante collassano, fatiscenti. Ci sono solo bande di disperati costrette a nutrirsi di carne umana. Una strada tra la polvere che non porta in nessun luogo, ma che un uomo e un bambino senza nome percorrono.  

Su questa strada non c’è benedetta anima viva. Sono scomparsi tutti tranne me e si sono portati via il mondo. Domanda: che differenza c’è tra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?

Il romanzo non dice se si è trattato o no di una catastrofe nucleare, solo che il mondo è finito, la civiltà è scomparsa e l’uomo e il bambino vanno in direzione di un Sud dove forse il clima è più mite e dove forse risiede la speranza.

Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.

Si è detto e scritto molto su La strada, anche a sproposito, forse. In un’intervista televisiva a Oprah Winfrey lo stesso McCarthy ha messo tutti d’accordo: «Per me si tratta solo di un libro che parla di un padre e di un figlio lungo una strada. Ma è bello che ognuno possa leggerci ciò che vuole».

Ben oltre la ritrosia dell’autore a svelarsi, appare evidente a chi scrive che il libro sia una parabola della paternità, un annuncio che ciascun uomo dovrebbe intelligere. Un testamento ricompreso dentro un romanzo eschileo, candido e corrosivo al tempo stesso, in cui l’autore esplora fino in fondo e senza mezzi termini il mistero della vita.

Devi portare il fuoco.
Non so come si fa.
Sì che lo sai.
È vero? Il fuoco, intendo.
Sì che è vero.
E dove sta? Io non lo so dove sta.
Sì che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo.

Ma il libro è anche un capolavoro di perturbante bellezza. «Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti.»

Comunque lo si guardi, il convitato di pietra de La strada è la paura. Un sentimento nuovo per gli americani, e magari per tutto l’occidente. «Dopo l’11 settembre – dice infatti McCarthy nella stessa intervista – le emozioni delle persone sono molto più legate nella propria quotidianità a pensieri apocalittici»

Il mese scorso è stata diffusa la notizia della prossima pubblicazione, in autunno, di due nuovi romanzi, a sedici anni di distanza da La strada. Si intitoleranno The passenger e Stella Maris, in Italia usciranno nel 2023. I romanzi hanno per protagonisti Bobby Western e Alice Western, gemelli innamorati l’uno dell’altra, le cui storie si intrecciano nei due libri. Sono thriller a sfondo introspettivo, che trattano concetti esoterici sulla matematica, la fisica, la biologia e la coscienza. Nel primo libro Bobby, un subacqueo, esplora il relitto di un aereo inabissato e si avvede che mancano il corpo di un passeggero, la scatola nera e la borsa del pilota. Si apre così una trama thriller, dentro la quale il protagonista, peraltro avvinto da perturbanti memorie del passato, resta coinvolto perché comprende di aver scoperto qualcosa di terribile. Nel secondo il racconto si sviluppa in forma di dialogo tra Alicia e il suo psichiatra, dal quale la donna è in cura per schizofrenia.

La narrativa di McCarthy ha sì dei temi ricorrenti, ma non si può certo affermare che sia uno dei tanti autori che scrivono, mutatis mutandis, sempre lo stesso libro, come accade da noi per alcuni famosi scrittori. Le lunghe pause tra una pubblicazione e l’altra non sono mai state un vezzo, ma il tempo necessario per capire, capirsi, studiare il punto di equilibrio tra le diverse componenti lessicali e narrative nella stesura di un manoscritto. Per la prima volta in Stella Maris apparirà finalmente un personaggio femminile, per esempio, dopo cinquant’anni durante i quali ne ha studiato i profili. Nascono a questo modo le sue opere perfette, dopo un attento e lungo lavoro di studio. McCarthy in definitiva è la prova vivente di quanto sia vero un assunto caro a chi scrive queste note: l’arte, anche l’arte della scrittura, poggia su tre pilastri. Lo studio, l’applicazione e il talento. Lo scrittore di Providence, questo è un fatto, studia e si applica, ma soprattutto ha un talento inarrivabile, straordinario, e anche questo è un fatto. Incontestabile.

Giuseppe Scaglione

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