Faber e tutto il mondo della sua anarchia

Pino Casamassima torna a scrivere di Fabrizio De André dopo vent’anni e nel suo nuovo libro dedicato al cantautore genovese trova narrazioni diverse.

De André. Vita poetica di un’Anima salva aggiunge qualcosa di nuovo alla vasta bibliografia su Faber.

Pino Casamassima scrive un libro introspettivo e poetico. Attraverso le opere del cantautore, egli scrive un vero e proprio romanzo di formazione dell’autore di Tutti morimmo a stento e di altri capolavori.

In queste pagine, prima di tutto è raccontata la vita poetica di un’anima salva: la biografia interiore di un intellettuale che si è servito della musica ed è diventato un poeta straordinario.

Casamassima ricostruisce dal di dentro il viaggio di Faber che va sempre in direzione ostinata e contraria.

L’autore scrive che Faber nell’affollato panorama musicale italiano del cantautorato è quello che ha incarnato la figura del frontman di un antagonismo senza compromessi.

Il grande anarchico della canzone italiana, grandissimo mediatore della cultura libertaria e eretica, ha usato le parole come Caravaggio usava la luce per squarciare il buio che avvolge i personaggi, con i colori dell’indignazione e della derisione, non abbandonando mai la consapevolezza dell’irriducibilità del conflitto in essere fra chi il potere lo gestisce e chi lo subisce.

Il De André di Casamassima è l’amico fragile che ognuno di noi vorrebbe avere, l’uomo e l’artista sincero che ha sempre avuto uno sguardo particolare verso i margini della società. Il poeta che all’ipocrisia della maggioranza ha sempre contrapposto l’innocenza delle minoranze

Questa è la sua direzione ostinata e contraria che diventerà il marchio di fabbrica e di lotta della sua vita di uomo e di artista.

Cosa ha significato per te tornare a scrivere di De André?

Perlustrare – come non avevo fatto con la prima stesura di 20 anni fa – una “anima salva”, nel senso che, libero da ogni legaccio biografico e cronachistico, ho potuto dedicarmi alla poetica di De André espressa su un pentagramma musicale che nell’arco dei suoi 15 album ha registrato una progressione formidabile sul piano dell’armonia, degli arrangiamenti, fino alla scelta degli strumenti utilizzati. Una prima svolta, sul piano musicale, avviene con Nicola Piovani, per poi proseguire con Mauro Pagani e infine con Ivano Fossati: basta confrontare il primo album con l’ultimo per accorgersi di trovarsi di fronte a due pianeti diversi. Agli inizi, Faber si serviva della musica per vestire le sue poesie, ché tali erano. Si pensi a quel passaggio di una delle sue più note composizioni, “La guerra di Piero”: “Dentro le mani stringeva il fucile, dentro la bocca stringeva parole, troppo gelate per sciogliersi al sole”. L’impianto musicale di quella splendida canzone di 57 anni fa (è del 1964…) è di una semplicità estrema, da ballata, come saranno le altre sue canzoni fino all’incontro con Piovani, come detto (“Storia di un impiegato”, 1973). Lì avviene la prima svolta musicale. La seconda, quella con la PFM, che riveste di nuovo le sue canzoni, con una elettrificazione che fa gridare alla blasfemia certi puristi, come era accaduto a Dylan dopo la sua svolta elettrica contestuale all’abbandono del Folk. Con Pagani realizza quel “Creuza de ma” dai presupposti arditi sul piano lessicale, giacché Faber decide di usare il genovese antico, specularmente a un tappeto musicale frutto di una ricerca con Pagani di strumenti “essenziali”, “antichi” di stampo mediterraneo dopo aver setacciato le coste del Nord Africa per diversi mesi. I suoi discografici volevano suicidarsi quando presentò quel progetto, ma non potevano dire di no a De André, così produssero quell’album sicuri di un bagno di sangue, mai pensando che quello sarebbe stato il lavoro di maggior successo di vendite di Faber. Con l’ultimo disco, “Anime salve”, Faber raggiunge una sorta di perfezione nell’equilibrio fra narrazione poetica e musicale: la collaborazione con Fossati e gli arrangiamenti di Piero Milesi (di una ospitalità quasi omerica: andai a trovarlo in Liguria, passammo belle ore assieme, fino alla sua prematura scomparsa una decina d’anni fa, ci sentivamo di tanto in tanto al telefono, anche per una sorta di affinità su più fronti, forse anche perché eravamo coetanei) ne fanno il disco di De André che con più frequenza ascolto.

Il tuo libro è qualcosa di più di un omaggio a Faber. In queste pagine viene ricostruito anche il mondo che vive intorno a lui, ma soprattutto c’è anche tutta la sua poesia. Cosa resta nel nostro mondo delle parole di Fabrizio?

Credo che rimanga quello che noi vogliamo/possiamo trovarci. É – questa – prerogativa assoluta degli artisti: realizzare un disco, un romanzo, una poesia, un film, un quadro, una fotografia, un’opera teatrale che scavalla il tempo, consentendoci di tornare a camminare sulle sue parole, le sue immagini, le sue musiche. Ci sono opere che tramontano col calar del sole della stessa giornata della loro nascita e altre che hanno vita imperitura: penso all’Iliade, con cui ho disposto di farmi seppellire (ho orrore del fuoco). Spero – con questo mio nuovo lavoro su Faber – di essere riuscito a trasmettere almeno una parte della sua sensibilità; ché è quella – la sensibilità sui diversi piani della narrazione – la sua cifra identificativa. Contrariamente ad altri suoi colleghi anche stranieri, in primis, il padre di tutti cantautori, quel Dylan senza il quale non ci sarebbe stata la scia culturale di quel livello a livello mondiale, ho sempre pensato a De André come a un intellettuale, un mediatore culturale. Una volta, mi disse Fossati d’aver visto Fabrizio uscire di corsa di casa per andare a comprare un libro. Era un divoratore culturale e questa suo desiderio bulimico lo portava poi a travasarci suggestioni narrative in forma di canzoni, spesso migliorando l’originale: penso alle sue traduzioni di Brel, Brassens, per non parlare di Edgar Lee Masters, da cui trae alcune poesie dall’Antologia di Spoon River rivestendole di versi nuovi. Basta confrontare le canzoni di Non al denaro, non all’amore né al cielo con le poesie originali di Masters per rendersene conto. Aggiungo come esempio sul piano della mediazione culturale, d’aver personalmente scoperto Francois Villon con La ballata degli impiccati, fino a comprare un libro sulla biografia di quel poeta maledetto del ‘400 e una sua raccolta di poesie con la prefazione di… Fabrizio De André.

Più che una biografia è una vita poetica. A mio avviso questa è la forza del tuo libro. Nel tuo modo singolare di scrivere di Fabrizio De André c’è soprattutto un grazie alla sua arte che ha incontrato il consenso di più generazioni. Eppure, tu scrivi che lui non è stato un autore per tutti. Perché?

Non per tutti perché bisogna essere attrezzati culturalmente per godere appieno di un’opera. Quelle di Faber non sono canzoni da doccia, quelle che il “pre-poeta” Pasquale Panella chiama “sceme”, come “la serva scema cui cadono i piatti”, quelle votate alla conquista di Sanremo: per vincere a Sanremo, una canzone deve essere anzitutto “scema”: deve scivolare con lo shampoo sotto la doccia. Quelle di Fabrizio sono narrazioni puntigliose sotto il profilo di una duplice bellezza: sia testuale che musicale. Puntigliose perché intrecciate al meglio, cioè in una maniera che non poteva essere che così. Racconta sempre Fossati d’essere rimasti fermi una giornata in sala d’incisione (con quel che costa…) perché a Fabrizio non girava più bene un avverbio in una frase. E s’è fermato tutto finché l’ha trovato, quello giusto, quello che non poteva avere alternativa: era quello e basta. Per cogliere al meglio la sua arte è necessario quindi essere culturalmente attrezzati, aver fatto un percorso culturale senza il quale si perde l’anima della narrazione: come trovarsi davanti alla Gioconda cogliendo solo la sua dimensione: «me l’aspettavo più grande»: espressioni già sentite che in realtà meritavano una martellata.

Nicola Vacca

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