Un parallelo: carità, castigo e delitto in Céline e Dostoevskij

Ogni tanto mi piace ritornare agli scrittori della mia formazione con riletture che non finiscono mai di fornirmi nuovi spunti e considerazioni, in questo caso, mi auguro, di qualche interesse per chi vorrà leggere quest’articolo frutto di un parallelo che la lettura di Viaggio al termine della notte mi ha portato alla mente, ovvero quello tra Céline e Dostoevskij, entrambi scrittori geniali, estremi, autentici, visionari, talvolta idolatrati o incompresi, scomodi per certi versi, ma innegabilmente pilastri della letteratura di due secoli diversi tra di loro, eppure allo stesso modo ricchissimi. Ebbene, nonostante il parlare che spesso se ne fa, noto con disappunto una certa tendenza a relegare questi due giganti in una sorta di aureo dimenticatoio che consiste, da un lato, nel considerarli di capitale importanza, dall’altro, di reputarne (erroneamente) la lettura di preminente appannaggio di intellettuali e critici. Esiste, e credo sia sempre esistito, un certo pregiudizio che vorrebbe ricondurre testi e autori che risultano per qualsiasi ragione disturbanti a una determinata ideologia (qualunque essa sia), generalmente mettendo in atto un’operazione di decontestualizzazione di posizioni e pensiero e ignorando la grandezza e i diversi piani di lettura a cui si prestano opere talora complesse o dissacranti, ma dallo sguardo tanto lucido e originale da aver degnamente superato la prova del tempo senza perdere il fascino originario, al contrario di quanto avviene ai cosiddetti “instant book”, prodotti editoriali d’intrattenimento soddisfacenti per la domanda del mercato del momento (ammesso che di necessità si possa parlare in riferimento ai libri) ma destinati a un velocissimo oblio perché focalizzati su fenomeni effimeri, mode passeggere e quant’altro di poco attinente all’arte e alla bellezza, alla letteratura, insomma.

Oltre a rifiutare l’idea di una letteratura alta o bassa, di destra o sinistra, intellettuale o meno, riconoscendo invece soltanto buona e cattiva scrittura, considero che certe posizioni personali espresse dall’autore non possano in alcun modo minare la straordinarietà dell’opera, anche in considerazione del fatto che il personaggio letterario (spesso paradigmatico ed eccessivo in quanto rappresentazione di vizi virtù) non sia sempre sovrapponibile all’autore, soprattutto in testi che possono apparire ancora oggi di rottura con la morale dell’epoca e in rotta con quella attuale. Personalmente, non sono neanche molto interessata alle biografie degli scrittori, non di rado avvolti da un’aura mitica – positiva o negativa che sia, poco importa – che può condurre a interpretazioni fuorvianti e a critiche sterili. È alla produzione letteraria che bisognerebbe guardare piuttosto, e leggendo i romanzi di Céline e Dostoevskij, non si può fare a meno di considerarli autori che hanno tentato impetuosamente l’impresa di scavare nella dimensione più intima del bipede (per dirla alla Céline) chiamato uomo, negli aspetti più sordidi della sua parabola ma anche in quelli più romantici e genuini, Dostoevskij esercitando le sue doti di fine e profondo psicologo del “sottosuolo”, Céline come medico che disseziona la materia pulsante, affascinante e ributtante che costituisce l’animo umano.

Anche in merito al supposto radicale cinismo di Céline ci andrei cauta: la stessa naturale inclinazione alla bontà e alle infinite possibilità dell’amore immediatamente lampante nell’idiota, in quanto puro, principe Myškin (L’idiota), è ravvisabile, seppur in modo meno scontato, anche nell’ingenuo ragazzino protagonista di Morte a credito (sempre di Ferdinand Bardamu si tratta), eroe sgangherato, sorta di Oliver Twist sfortunato, la cui condizione sociale di svantaggio data da un’infanzia trascorsa in un gretto contesto familiare e sociale e da un’adolescenza oppressa dalla povertà, lo porta spesso a trovarsi senza colpa e volontà in situazioni sconvenienti in cui la sua sostanziale onestà di base in molti casi costituisce addirittura l’innesco di accuse infamanti e truffe ai suoi danni. L’anelito all’integrità morale, se vogliamo quasi un idealismo senza speranze, viene manifestato anche dal personaggio adulto di Bardamu del Viaggio per esempio quando, parlando del sergente Alcide – militare in Africa che cerca di guadagnare dal commercio del tabacco non per sé ma per la nipotina orfana –, desidera: «Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi».

Perfino la visione dell’amore nel Viaggio non può che essere profondamente differente da quella classica se chi la esprime, non avendo avuto in sorte che disgrazie e stenti, è costretto a sacrificare tutto alla realtà senza poter concedere nulla al sogno: «Gli amori contrariati dalla miseria e le grandi distanze, son come gli amori dei marinai, niente da dire sono qualcosa d’inconfutabile, di riuscito». Eppure, cos’altro si può fare se non amare? «Non hai niente da fare col tuo cuore, lo regali volentieri».

Si potrebbe addirittura parlare di carità in Céline, la carità di fronte alla miseria umana narrata con una visione spiazzante in quanto intollerabilmente vera da un uomo che ha sperimentato sulla sua pelle ciò di cui parla. D’altronde: «Quando non si hanno dei soldi da dare ai poveri, è meglio star zitti. I ricchi, è facile divertirli, bastano degli specchi per esempio, perché ci si possano contemplare, perché non c’è nulla di meglio al mondo che guardare i ricchi».

Non vuoti slogan o mere riflessioni esistenziali/esistenzialiste, ma anche esempi concreti di pietà umana nel Viaggio, per esempio, la vicenda della prostituta Molly: la Liza umiliata in Dostoevskij dal protagonista di Memorie dal sottosuolo, viene qui purificata ottenendo il suo riscatto. Molly sarà molto più di un semplice sollazzo, ma una vera compagna, empatica e dolce che allevierà la solitudine della permanenza statunitense di Bardamu: «Nei confronti di una delle ragazze del posto, Molly, provai presto uno specialissimo sentimento di fiducia, che negli esseri impauriti occupa il posto dell’amore».

La parte del Viaggio che però più mi ha fatto pensare a Dostoevskij è quella conclusiva dove si dipana uno sviluppo narrativo in alcuni punti molto prossimo alla trama di Delitto e castigo. Si tratta della vicenda di Robinson, personaggio misterioso, che appare all’improvviso in posti lontani nel mondo come fantasma o proiezione mentale del protagonista-voce narrante Bardamu (a sua volta alter ego di Céline) e che, in cambio di denaro, architetta l’omicidio della vecchia Henrouille in accordo con i parenti della donna, gente che non ha «mai speso in cinquant’anni uno solo dei loro soldi senza averlo rimpianto».

Il piano però fallisce e Robinson rimane ferito perdendo quasi la vista. Per insabbiare il tentato omicidio sia la vecchia che Robinson vengono spediti a Tolosa dai familiari dell’anziana donna. Qui i due stabiliscono uno strano sodalizio economico. Senonché la vecchia Henrouille un giorno muore cadendo da una scaletta. Sull’oscura morte si pronuncerà direttamente Bardamu supponendo la colpevolezza di Robinson: «Senza raccontarmi assolutamente che era stato Robinson che le aveva dato il giro alla vecchia, dalla sua scaletta, non mi ha comunque impedito di supporlo… Lei aveva mica avuto il tempo di dire uff! sembrava. Ci capivamo… Era un bel lavoro, curato bene… La seconda volta che ci aveva riprovato, non l’aveva sbagliata la vecchia.»

Ecco dunque il delitto, un’anziana donna vittima della furia omicida, l’avidità come detonatore di ogni male e un castigo ben più duro rispetto a quello toccato in sorte a Raskolnikov spedito in un campo di lavoro in Siberia, bensì una pena da scontare direttamente col sangue. Il castigo di Robinson (sorta di doppio oscuro di Bardamu) arriva come un occhio per occhio dente per dente, una giustizia narrativa che non lascia scampo, come ci si può aspettare da uno scrittore come Céline, tanto debordante nella sua spietata ironia quanto nell’oscurità dell’abisso tragico. La punizione di Robinson, finito crivellato dai colpi di un’arma da fuoco, arriva proprio da Madelon, altro personaggio provato dalla vita, interrotto, che nell’amore per un Robinson quasi cieco aveva stoltamente proiettato tutte le sue aspettative di ricevere un sentimento totalizzante, infantile, pertanto impossibile. Un sogno romantico tanto più illusorio quanto più insito nella natura dell’uomo: «È più difficile rinunciare all’amore che alla vita. Si passa il tempo a uccidere o ad adorare, a ‘sto mondo, tutt’e due insieme: “Ti odio! Ti adoro!”. Si tira avanti, ci si tiene compagnia, si appioppa la vita al bipede del secolo dopo, con frenesia, a ogni costo, come se fosse straordinariamente divertente perpetuarsi, come se quello ci potesse rendere, in fin dei conti, eterni. Voglia di abbracciarsi malgrado tutto, come ci si gratta.»

Presto però i sogni s’infrangono contro la dura realtà: Madelon, resa cieca (quasi per contaminazione) dalla gelosia e in preda alla pazzia, uccide il suo amato. Il delitto è il culmine del delirio consumato all’interno del taxi, momento che ricorda i vaneggiamenti del febbricitante Raskolnikov, forse moralmente assolto anche grazie a questo suo continuo espiare tramite una febbre considerata benefica dallo stesso Céline/Bardamu: «I soli giorni sopportabili di cui posso ricordarmi nel corso di tanti anni furono i pochi giorni d’una influenza con febbre alta».

Il delitto (di Madelon, di Robinson e degli Henrouille) non essendo supportato dal folle ideale di Raskolnikov dell’uomo superiore al di sopra della legge, non ha nulla di eroico, è, semmai, cattiveria naturale, dura legge della giungla, la giungla che Céline conobbe bene in Africa, in guerra, nella sua straordinaria vita, tramite il viaggio, metafora di vita per lui, in Dostoevskij invece simbolo di reclusione e confino, quello vissuto e raccontato in Memorie dalla casa dei morti.

E per concludere, quel memorabile finale del Viaggio, un «ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano…» che mi porta direttamente a San Pietroburgo.

Giusi Sciortino

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