E se Marx fosse vissuto nel Novecento sarebbe stato marxista?
Il ritratto che ne fa Isaiah Berlin in questo saggio scritto negli anni Trenta e ripubblicato oggi da Adelphi (ma ne esiste anche una versione uscita, a cura di Bruno Bongiovanni, per “La Nuova Italia” nel 1994) è quello di un filosofo radicalmente legato al suo tempo: analista delle disfunzioni del reale più che profeta, scienziato della società più che utopista o rivoluzionario di professione, pensatore illuminista e positivista più che fedele seguace hegeliano.
Berlin storicizza Marx e lo sottrae al dibattito novecentesco, salvandolo contestualmente dalla brutta avventura dei marxismi realizzati in suo nome, dalla mistificazione ideologica cui l’hanno piegato amici e avversari. Lo pone al di qua della condanna e dell’agiografia, del male e del bene.
Seguendolo senza pregiudizi ideologici nel suo percorso di vita e di pensiero, ne fa emergere le contraddizioni, ma non ignora la portata innovativa del suo modo di operare: innovativa proprio nel suo distaccarsi dalla dialettica hegeliana mantenendo la dialettica.
Per Hegel il principio dialettico opera dall’alto come essenza metafisica, come sostanza che si dispiega nel tempo, eliminando al culmine del suo processo il male; Marx osserva invece l’operare di questo principio dal basso, a partire dalle condizioni materiali, come una forza propulsiva ma non risolutiva e messianica.
E ciononostante non fa dello schema dialettico un assunto dogmatico, un fondamento assoluto del suo materialismo storico, ma una bussola euristica, per orientarsi nella complessità del reale. Più vicina alla curiosità della volpe che alla tetraggine del riccio, è la dialettica di Marx, più apertura che chiusura, più divenire che meta. Anzi, lo stesso materialismo è qualcosa di cui non fornisce mai “una esplicita trattazione … Lo considerava infatti non tanto come un nuovo sistema filosofico, quanto come un metodo pratico di analisi sociale e storica”.
Si trattava di far emergere, al di là dei proclami politici e delle attese, le leggi della storia nell’unico modo in cui è possibile per uno scienziato rinvenirle: cioè il campo dell’esperienza, dei fatti, quello che si può concretamente osservare al di là dell’impalpabile sostanza hegeliana. Da qui l’importanza assegnata alle forze materiali, alle classi in conflitto, al lavoro, al mondo della produzione, all’uomo stesso più che a Dio o allo spirito. “Non è la coscienza che determina l’essere degli uomini, ma è il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, scriverà lo scienziato di Treviri. Ed è questa figura di scienziato, erede dell’empirismo e del sensismo settecentesco e di un pensiero tendenzialmente critico, che il liberale Berlin mette a fuoco in un saggio di una chiarezza assoluta, in una biografia di godibile lettura che lo rivelò al mondo come un grande storico delle idee.
Stefano Cazzato
(Isaiah.Berlin, Karl Marx, a cura di H. Hardy, Adelphi, 2021, pp.309, euro 28.00)