Nessuna valida risposta può, in questa fase, essere formulata, tuttavia è possibile fare un’analisi nel tentativo di ipotizzare una via di fuga. La tecnica ha favorito l’irruzione del nichilismo entrato oggi nell’epoca del suo massimo compimento, raggiungendo l’apice del suo potenziale distruttivo, di conseguenza il mondo è dominato dalla volontà di potenza in quanto caratterizzato dalla mobilitazione totale del capitale finanziario, ciò significa che sul piano storico, la realtà fenomenica è sconvolta dall’azione di forze distruttive incontrollabili che la devastano inesorabilmente.
Il fallimento dell’economia reale, ovvero di quella economia radicata nello stato-nazione, che svolgeva il ruolo di “katèkon” (κατέχον) capace appunto di trattenere in uno stato di quiete ordinatamente produttiva il potenziale dell’energia effettivamente disponibile, quindi la capacità di ordinare il divenire storico con una serie di eventi controllati, finalizzati ad un progresso senza catastrofe, cioè alla pura evoluzione in senso capitalistico della società divisa in classi, è venuta meno.
Questo orizzonte degli eventi è il “nec plus ultra” che coincide con la mobilitazione totale della tecnica e del capitale finanziario, questo “punto zero” della storia corrisponde con la linea che divide il vecchio mondo dal nuovo, cioè la soglia epocale dove la volontà di potenza incontenibile perché non riconducibile ad alcuna forma di contenimento, scatena il proprio fattore distruttivo annichilendo qualsiasi forma di resistenza o sopravvivenza del vecchio mondo ancora in grado di governare i processi storicamente in atto.
In questo senso, la soglia definita dalla linea di confine del nulla è quel luogo di assoluta trasvalutazione che consiste nella dissoluzione dell’essere nel divenire assoluto, cioè l’esito del nichilismo compiuto, la somma volontà di potenza che, in quanto estrema volontà di annullamento, coincide appunto col nichilismo assoluto ovvero divenire senza essere: “enèrgheia” (ἐνέργεια) senza “eìdos” (εἶδος), l’uomo non in quanto uomo nella sua identità e dignità, ma l’uomo in quanto consumatore e, in divenire, quale forma merce quindi prodotto, la nuova forma umana sarà dunque “l’uomo-prodotto”.
Un divenire senza essere che si manifesta principalmente in un luogo fisico ben definito: la grande area metropolitana. La metropoli è il luogo ove si concentrano e si accrescono tutte le tendenze della modernità, quella che Cacciari dichiara essere “la forma generale che assume il processo di razionalizzazione dei rapporti sociali” (Massimo Cacciari, “Metropolis: saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel”, Officina Edizioni, Roma, 1973), la mentalità della metropoli è infatti quella del calcolo e pertanto ognuno è portato a relazionarsi con persone che gli possano offrire un vantaggio evitando quelle di cui percepisce che potrebbero danneggiarlo, la puntualità, l’esattezza, la precisione, sono le nuove virtù.
L’annichilimento metropolitano va di pari passo con l’aumento di libertà anche negli stessi rapporti sociali dell’uomo, che ora può decidere di vivere indipendentemente dagli altri “ciò che in questa forma di vita appare immediatamente come dissociazione è in realtà soltanto una delle forme elementari di socializzazione” (Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2012)
È il trionfo dello spirito oggettivo sullo spirito soggettivo, ovvero su ciò che di precipuamente umano caratterizza ognuno, effetto finale del nichilismo compiuto e della trasvalutazione dei valori “lo sviluppo della cultura moderna si caratterizza per la preponderanza di ciò che si può chiamare lo spirito oggettivo sullo spirito soggettivo; in altre parole, nel linguaggio come nel diritto, nella tecnica della produzione come nell’arte, nella scienza come negli oggetti di uso domestico, è incorporata una quantità di spirito al cui quotidiano aumentare lo sviluppo spirituale dei soggetti può tener dietro solo in modo incompleto, e con distacco sempre crescente” (Georg Simmel, “Le metropoli e la vita dello spirito”, Armando Editore, Roma, 2012).
Se dunque l’uomo è un “uomo-prodotto” quale potrà essere la via di fuga dal confine del nulla e dalla metropoli che omologa le anime? Il pentimento potrebbe essere un atto eversivo, cioè pentirsi di essere stato un meccanismo consapevole della mobilitazione totale della tecnica e del capitale, assumere quindi autocoscienza per la rinascita, è solo con questa presa di distanza estraniante dal proprio passato che è possibile andare oltre la propria condizione, la realizzazione di un atto della volontà individuale, in contrapposizione alla volontà di potenza globale, non perché non corrisponda al mio essere, ma piuttosto perché è il mio essere a non corrispondere più ai parametri della morale dominante a cui desidero adeguarmi formalmente per paura di uno svantaggio o una punizione.
Ma quale potrebbe essere il senso di una rivolta? Se prima “l’uomo-prodotto” era adagiato in un compromesso, ora si identifica totalmente con quel bene di cui ha preso coscienza, essere riconosciuto e considerato nella propria persona, o perire per mano del potere opprimente che lo tiene soggiogato “Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio” (Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002); se dunque “l’uomo-prodotto” si ribella lo fa perché crede in un bene trascendente il proprio destino, difende un diritto negato che egli pone al di sopra di sé “Agisce dunque in nome di un valore, ancora confuso, ma che avverte, almeno, di avere in comune con tutti gli uomini” (Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002).
Nella rivolta dunque “l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica” (Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002), soltanto in nome di questa solidarietà la rivolta è giustificata, qualora quest’ultima andasse a distruggere il legame tra gli uomini, non sarebbe più una rivolta ma solo assassinio. La rivolta pertanto deve rimanere fedele alla sua natura nobile, al limite che scopre in sé stessa, non deve trasformarsi in tirannia.
Se quindi nella sua solitudine “l’uomo-prodotto” è straniero e soffre individualmente, nella rivolta egli trova un valore trascendente: la solidarietà; si sente parte di una comunità, si sente parte di una realtà umana. Emerge allora il valore ontologico della rivolta: per essere l’uomo deve rivoltarsi, senza la rivolta egli non è “mi rivolto, dunque siamo” (Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002).
Gianfrancesco Caputo