Ma, come dicevamo sopra, gli eroi pop volano sopra le ideologie, intercettano i cambiamenti e, in larga parte, se ne fanno simbolo. Il Bond letterario, al netto del conservatorismo esasperato, era ancora un essere umano; il passaggio alla pellicola avrebbe siglato la promozione a supereroe estremizzando alcune precise caratteristiche, su tutte il dongiovannismo e gli atteggiamenti da bon vivant (“Agitato, non mescolato”).
Dopo una quarantina d’anni di spacconate era ovvio che anche l’icona Bond necessitasse di un restyling. È ancora possibile un eroe invincibile, varcate le soglie del nuovo millennio? Ecco quindi che archiviato Pierce Brosnan (il peggior Bond di sempre) si punta su Daniel Craig, attore britannico proveniente da drammi proletari come The mother di Michell / Kureishi, fisico pesante, rozzo (i detrattori sostengono che è più adatto a impersonare un buttafuori ucraino che una spia inglese) ma anche il primo attore (insieme a Timothy Dalton, con cui, a mio avviso, ha diverse cose in comune, a cominciare dalla mancanza di umorismo) a interpretare Bond con un profilo attoriale già solido: Connery avrebbe costruito la sua classe di interprete nel corso degli anni, Roger Moore non si è sostanzialmente mai mosso dalla sua comfort zone, Lazenby si è divertito (e noi con lui), Brosnan è un anodino manichino.
Il Bond di Craig riparte da zero e lo fa con assoluta consapevolezza del suo interprete. La grande novità del franchising: Continuity, toni crepuscolari, la ricerca di una verosimiglianza che, per forza di cose, è molto relativa. È ovvio e in fondo giusto che riscrivendo Bond si guardi più al Batman di Miller e/o Nolan che a John Le Carrè, ma fare dell’arcinemico Blofeld il fratellastro di 007 (succede in Spectre, unico film dell’era Craig ad aver deluso chi scrive su tutta la linea) è decisamente eccessivo, oltreché oltraggioso per il fan della prima ora.
Questo logorroico cappello per introdurre il compimento dell’era Craig, cioè No time to die, film dalla lavorazione travagliatissima, con le sue continue revisioni di sceneggiatura e il salto sul carro in corsa della geniale Phoebe Waller-Bridge (motore immobile della serie capolavoro Fleabag) per non parlare del contributo alla scrittura, per la prima volta nella storia della saga, dello stesso regista Cary Jojy Fukunaga, anche lui con una serie maiuscola in curriculum (True detective, limitatamente alla prima stagione). Prima dell’arrivo in sala ci si è messa di mezzo pure una pandemia, a sottolineare quanto ha dovuto patire, quest’ultimo, riassuntivo e celebrativo capitolo, per consegnarsi allo sguardo dello spettatore. E comunque alla fine eccolo qui, No time to die. È valsa la pena aspettare tutto questo tempo per il lungo addio craighiano? Sì, ne è valsa la pena.
Oltre due ore e mezza di durata scorrono veloci per riannodare tutti i fili narrativi dei quattro film precedenti e portano a una conclusione logica e coraggiosa. Nel frattempo abbiamo la sequenza pretitoli più lunga e complessa di tutta la serie (praticamente un cortometraggio a sé stante); uno 007 alternativo, donna e afrodiscendente; dieci minuti di screwball comedy di ambientazione cubana illuminati dallo splendore di Ana de Armas, qui eroina hawksiana (e improvvisamente accanto a lei Craig appare inadeguato, ci sarebbe dovuto essere come minimo Cary Grant), il coming out del Q di Ben Winshaw che viene interrotto da Bond e Moneypenny mentre sta imbandendo la tavola per il suo “lui” (ma non dimentichiamoci che in Skyfall lo stesso Bond, a colloquio col villain Silva, non aveva escluso frequentazioni omoerotiche); i “cameo” di Bernard Lee e Judi Dench, a ribadire i legami con la tradizione; due cattivi che si connettono direttamente ai territori dell’horror (Blofeld come Lecter, Safin come Michael Myers), il tutto frullato dalla regia rispettosa ed edulcorata (si muore crivellati di pallottole senza versare sangue, come se le persone fossero manichini impagliati) di Fukunaga, qui teso a confezionare uno spettacolone solenne, divertente, emozionante.
Dal mio punto di vista ci riesce ed entra nel novero dei registi col tocco giusto: non i migliori, quelli restano Peter Hunt, Terence Young e Martin Campbell, che poi sono anche i più secchi e sbrigativi, i meno reticenti in termini di violenza (e Hunt introduceva nei corpo a corpo una libertà stilistica da nouvelle vague), ma comunque merita di smezzare il podio con Lewis Gilbert e Guy Hamilton, gente che sapeva calibrare commedia e azione. Il timone registico è un altro argomento sensibile dell’era Craig (sulla superficialità degli snodi narrativi non serve discutere: quale film di 007 ha una sceneggiatura senza buchi?). Sam Mendes, per dire, si è portato dietro Roger Deakins (Skyfall) e Hoyte van Hoytema (Spectre), direttori della fotografia abituati a ben diversi contesti; ha innestato nella sintassi bondiana una figura retorica come il piano sequenza, vero e proprio feticcio autoriale, un tempo inconciliabile col cinema d’azione, oggi quasi immancabile sfoggio di bravura in qualunque film di genere. Insomma, i tempi sono cambiati anche per James Bond (“Dinosauro della guerra fredda” così M intorno alla metà degli anni ’90) che, non l’ho ancora detto, pare essere diventato rigidamente monogamo. D’altra parte, se un certo conservatorismo esce dalla porta, un altro entra dalla finestra. E comunque: nothing more, nothing less. Only love.
Fabio Orrico