Mi piace tu abbia messo in relazione queste due mie opere. Non faccio distinzione tra prima e seconda per un preciso motivo: Petali di rose, madonne e carciofi (Prova d’autore, 2021) è stato il primo progetto di romanzo da me mai concepito. Era un periodo delicato sul piano personale e professionale, poi l’ispirazione. Ovviamente, durante la stesura del libro ho cambiato idea innumerevoli volte prima di arrivare alla forma definitiva, l’unica costante il gusto per il gioco sfrenato di fantasia, sia nell’abbozzo e dissoluzione di generi diversi (formazione, finto giallo, un pizzico di noir, elementi fantastici), che nella creazione e gestione di personaggi e trame che s’intrecciano fino al finale risolutivo. L’utilizzo di un punto di vista unico o perfino di un narratore interno in prima persona sarebbe stato tecnicamente più semplice da gestire, ma non adatto al tipo di narrazione che avevo in mente, ovvero un romanzo d’intreccio piuttosto lungo, classico per molti versi, con una terza persona che mi permettesse di gestire diversi piani narrativi e temporali. Mi sono impegnata in un grande lavoro di scrittura e riscrittura, un editing durato parecchi anni che ha portato a metà le pagine iniziali. Contenta di avere aspettato: la fretta non è mai buona consigliera, nella scrittura specialmente. Curiosamente, una delle domande che più di frequente mi pone chi ha letto il libro è: «L’hai scritto di getto?» Tutt’altro. Credo ci si riferisca a una certa scorrevolezza nella lettura, uno dei punti su cui ho lavorato di più e che mi è costato molto in termini di tagli e revisione. Rispetto ancora alla questione punto di vista, mi rendo conto di realizzare un tipo di scrittura diversa a seconda che il personaggio che mette a fuoco gli eventi abbia una sensibilità più marcatamente maschile o femminile; non parlo di genere, quanto di una diversa energia, più dirompente, sofferta, psichica quando predomina il maschile (in Angelo Vinci, per esempio), oppure fragile, emotiva, quasi mistica al femminile (Maria, per l’appunto). Creare storie richiede, oltre a un lavoro introspettivo, la realizzazione di un osservatorio sulla gente: chiunque può entrare in un romanzo; possono offrire spunti interessanti la strada, il condominio, qualsiasi luogo dove ci sia vita. Angelo Vinci dal suo angolino di universo, dall’isolamento di una stanza opprimente è l’osservatore solitario; i personaggi di questo nuovo romanzo, invece, sono gli osservati che interagiscono tra di loro, dall’esterno. Io la lente.
L’innesco narrativo del libro è il ritorno a casa di Maria, quindi un topos antichissimo. Hai voluto guardare a una tradizione precisa?
Col tema del Nostos ci abbiamo avuto a che fare sin da Omero, fino ad arrivare alle teorizzazioni più recenti che individuano strutture narrative archetipiche riconducibili al “viaggio dell’eroe”. Il viaggio e il ritorno alle origini è, nel mio caso, metafora di un percorso di vita più o meno voluto, ostacolato da antagonisti, facilitato da entità benigne; il Nostos è poi lo svolgersi stesso della storia, la sua evoluzione. In effetti, credo di aver realizzato una struttura circolare, dato che il romanzo inizia da dove la storia si conclude: in mezzo c’è tutto il resto. La tradizione a cui ho guardato maggiormente è quella cattolica e cristiana, col suo portato di credenza popolare, non intesa come folclore o, peggio ancora, superstizione, bensì come mito nel significato che gli riconosceva Jung, ovvero di conoscenza originaria, “primissima forma di scienza”.
Petali di rose è attraversato da una mappatura dei luoghi che oserei definire sentimentale oltreché fortemente polarizzata (il sud, il nord, la provincia, la grande città). Quanto portato autobiografico c’è nella descrizione di questi luoghi?
Non è stata casuale la scelta dei luoghi, sia dei grandi che dei piccoli spazi. Ho prestato particolare attenzione agli interni, dagli appartamenti occupati della periferia milanese alle case rurali a quelle borghesi. Come osservi bene tu, ricorre la contrapposizione nord/sud, campagna/città. L’ho già detto in altra sede: ciò che scrivo è vero e falso allo stesso tempo, tutto vissuto direttamente oppure osservato; cerco sempre di parlare di cose che mi stanno a cuore, che in qualche modo conosco. Vivo la scrittura come summa della mia esperienza di lettura, ma soprattutto di vita. Poi c’è la fantasia, certo, il lavoro, l’osservazione del mondo in cui vivo e di quelli che provo a creare cercando, perlomeno, di restituirne il senso percepito, l’ordine reale e immaginato, i limiti e le storture, o soltanto di trasporne gli interrogativi insoluti.
Uno dei punti di forza di Petali di rose è la costruzione dei personaggi secondari, complessi e mai banali, così come la puntualità delle loro uscite di scena e dei loro, spesso inaspettati, ritorni. Prima di iniziare a scrivere un romanzo fai un lavoro accurato di pianificazione?
In realtà, quando inizio a scrivere un romanzo (finora ne ho pubblicati due, ma ci sono altri progetti in fase di scrittura/editing) lavoro attorno a un’idea centrale che espando man mano che accumulo materiale e pagine. Di solito, ho chiaro un incipit, un finale e uno o pochi personaggi principali. Subito dopo scelgo il punto di vista più adatto alla narrazione che intendo condurre, questione a cui mi pare di avere già risposto nella prima domanda. Cosa succederà tra l’inizio e la fine della stesura non è dato saperlo in anticipo. La variabile fondamentale è quella temporale. Scrivere un romanzo (almeno per me) è una lotta contro il tempo, non tanto contro la sua mancanza/disponibilità (non mi do limiti o scadenze), quanto contro la mutevolezza che il suo scorrere presuppone. Non vorrei scomodare Eraclito, ma tutto muta continuamente: l’ispirazione, le idee sulle persone e le cose del mondo, lo stato d’animo. Per esempio, in questo nuovo romanzo, spinta dall’umore del momento, avevo inizialmente intenzione di scrivere un racconto molto cupo. Invece poi la scrittura mi ha stimolata positivamente e ho scoperto (non lo sapevo prima di allora) di essere portata per la creazione di un tipo di atmosfera più sfaccettata, tragicomica l’ha definita qualcuno recensendo il mio primo romanzo. Credo l’aggettivo si addica anche a quest’altro lavoro; forse tragicomica un po’ lo sono anch’io, ossia mutevole in massimo grado. In sintesi, la pianificazione consiste in un’idea centrale, nella scelta di un punto di vista con cui sviluppare la struttura narrativa e pochi elementi di trama da ampliare. Tutto il resto avviene man mano che scrivo e la vita mi scorre accanto. Insomma, scrivo ciò che accade e, a volte – lo dico sinceramente –, accade ciò che scrivo.
Ho potuto leggere la tua raccolta inedita di poesie e devo dire che è attraversata da una forte esigenza narrativa. Pensi che la poesia, con la sua astrazione e rarefazione, abbia caratteristiche integrabili alla prosa? Se sì, quali?
Da piccola leggevo volentieri poesia e provavo perfino a scriverne: a rivedere adesso quei componimenti provo tenerezza. Sebbene non sia semplice staccarsi dalla propria scrittura e giudicarla, il mio approccio verso la mia produzione è molto autocritico, specie quando si tratta di poesia: ho scritto e cancellato moltissime volte prima di giungere alla forma definitiva dell’opera che hai letto tu (ancora inedita, ma potrei pubblicarla a breve), una raccolta a metà tra prosa e poesia, composta da testi perlopiù lunghi che si sviluppano attorno a un nucleo narrativo principale. Per avere esempi di poesia con “esigenza narrativa” non bisogna necessariamente arrivare alla Divina Commedia, basta pensare a Elio Pagliarani con il suo bellissimo poemetto “La ragazza Carla” oppure, per uscire fuori dall’Italia, a Evtušenko: leggendo “Distacco” o “La stazione di Zimà” riconosciamo immediatamente il racconto di un’esperienza tangibile, specifica eppure paradigmatica nella sua umanità, che sappiamo senz’altro riconoscere come opera poetica. Ritengo che la poesia, pur avendo un suo peculiare codice linguistico, formale, simbolico, non sia facilmente inquadrabile entro limiti angusti e definizioni assolute. Trovo abbiano pari dignità gli esperimenti di scrittura vincolata dell’OuLiPo, l’avanguardia della poesia cosiddetta “asemica”, o ancora la poesia visiva o sonora, ma anche quella dialettale che riprende l’oralità popolare (m’interessa in particolare la siciliana, per questioni di prossimità linguistica e culturale). Sento dire spesso: la vera poesia deve parlare di cose alte; e ancora: la poesia non si occupa del quotidiano; il fine della poesia è la ricerca dell’Assoluto e così via. Oppure l’esatto opposto. Non sono d’accordo con una certa idea di poesia alta e, d’altro canto, mi sembra ingenuo invocare un presunto carattere di spontaneità: l’opera poetica richiede sempre ricerca e cultura. Se a questo punto mi chiedessi di scegliere una definizione, utilizzerei le parole di Emily Dickinson: «Se mi sento fisicamente come se mi scoperchiassero la testa, so che quella è poesia. È l’unico modo che ho di conoscerla. Ce ne sono altri?» Quella di Emily Dickinson ne è un ottimo esempio.
Mi piacerebbe sapere quali sono gli autori che ami di più, quelli che ti hanno accompagnato nel tuo percorso di scrittrice.
La scrittura è una passione matura, il primo amore è stato la lettura. Ora scrivo anche dei libri degli altri: è un esercizio molto stimolante. Nessuno ha letto tutto, certo, ma posso dire di avere accumulato una discreta esperienza di lettura, soprattutto di classici. C’è da dire che ho alle spalle un percorso di studi letterari, sebbene gli strani casi della vita mi abbiano portato a intraprendere una carriera di tipo amministrativo in una multinazionale. Ho amato i romanzi dell’Ottocento, i francesi e i russi soprattutto, poi la scoperta del Novecento italiano e non solo, i sudamericani, la poesia americana, i miei amati siciliani, da Pirandello a Sciascia, e permettimi di citare il mio editore: Mario Grasso, poeta che reputo di grande importanza per la poesia dialettale siciliana e non solo. Qualche altro “nome”: Dostoevskij, Gogol e poi Céline, Hamsun, Bernhard, Rimbaud, Plath, Pessoa, Bolano, Flaiano, Sabato, Morselli, vado così, a caso, ma sono molti. Sicuramente per questo romanzo non ho seguito la tendenza di molta letteratura odierna verso una forma destrutturata o ibrida, forse mi sono contaminata con un tipo di operazione diversa: ho sovrapposto più generi cercando di realizzare un classico romanzo d’intreccio. E ancora, nulla di nuovo sotto il sole: a che genere si potrebbe ascrivere un’opera come “Delitto e castigo”? In sintesi, ho un empireo di beati della letteratura variamente popolato a cui attingo mischiando sacro e profano, comico e drammatico, personaggi dalle più disparate ascendenze. Faccio belle scorpacciate di libri. Qualche viaggio. Spero questo sia stato di tuo gradimento.
Fabio Orrico
Un pensiero su “Tutti i luoghi di un’educazione sentimentale”