Rassetti la scrivania. Lo fai di rado, il disordine ti aiuta. Fabio Trivulzi, direttore finanza dell’azienda che dirigi, ti domanda sornione: «Pulizie di Pasqua?».
Annuisci e mormori: «Già, lo faccio sempre, prima di una vacanza». Raddrizzi una pila di fogli, sollevi lo sguardo e aggiungi: «Ma poi, Pasqua è passata da un po’. Siamo ad agosto, Fabio».
Strappi il foglio di calendario di mercoledì 3 agosto. «Domani sono in Borgogna» sussurri, come a te stesso
«Guarda qui, sei penne sparse» ti dice serio, come scandalizzato, raggruppandotele dritte accanto al tuo telefono. Non lo fa per prenderti in giro. È preoccupato, davvero.
Sorridi. «Ma poi, proprio tu» dici a Fabio, mettendogli una mano sulla spalla. «Altro che pulizie di Pasqua. Ti sarai già portato avanti col lavoro fino a Natale, conoscendoti».
«Ma va’, basta essere ordinati dentro» risponde Fabio, facendo un passo di lato per scrollar via la tua mano dalla sua spalla. «Se lo sei, ogni giorno è Pasqua».
Ordinati dentro. Già, forse questo è il segreto. Infili dei fogli nella cassettiera e la chiudi.
«Non a chiave?» domanda Trivulzi, lo sguardo cupo.
«Non ho segreti» rispondi sicuro.
«Contento tu … Ma come fai?» domanda, squadrandoti in viso mentre si siede alla tua scrivania, il capo poggiato su un pugno.
«Come faccio cosa?»
«Voglio dire, come fai con tutto questo …»
«Casino?» lo aiuti.
«Esatto, l’hai detto tu.»
«Ti saresti messo le mani nei capelli» mormori, con un sorriso «se mi avessi visto ventun anni fa quando, nel 1984, scrivevo le cinquecento pagine della tesi di laurea sull’autore di 1984: libri a terra, fogli di appunti pinzati assieme, quaderni e fotocopie sopra e sotto al tavolo».
Me le sarei messe sì» ammette Fabio porgendomi con una mano quattro fogli da buttare e raddrizzando con l’altra una cartellina sulla scrivania.
«Ma Fabio, mi ricordi Luigi» gli dici richiudendo la cassettiera.
«Luigi?» domanda raccogliendomi da terra un foglio.
«Un mio collega della fabbrica del cioccolato, tanti anni fa. Un ragioniere e musicista.»
«Ragioniere e musicista?» domanda Fabio, rialzandosi dalla sedia. Stupito, la mano a mezz’aria col foglio sventolante.
«Sì, ragioniere e musicista.»
«Ma sono inconciliabili» commenta Fabio.
«Macché. Alla fine sono numeri e rigore, nell’uno e nell’altro mestiere.»
«Ho capito, ma l’hai detto, due mestieri. Diversi.»
«Meno di quel che pensi, Fabio» scuoti le spalle.
«Non so. Ma scusami, adesso, devo andare. Fatti buone ferie, le hai meritate.»
«Buone ferie a te, Fabio. Grazie.»
Così ha termine la tua giornata di lavoro, vissuta da risolutore dei destini del mondo. Fatto, chiudi la porta dell’ufficio e esci pure tu. Scendi le scale pensando che ha ragione Bianca, quando ti domanda: «Corri, ma per andare dove?». E ne hai tu, quando le rispondi «Già, dove? Non contro un muro, spero». Saluti il sorvegliante all’uscita e ti precipiti all’auto.
*
«Allora, finito?» ti domanda un collaboratore nel parcheggio aziendale. Senza attendere risposta, facilmente leggibile sul tuo volto, incalza: «Vacanza?».
«Sì» grugnisci, allungando il passo.
«Dove?» ti rincorre il collaboratore.
Ti fermi, lo squadri, lo squadri e dici «Inghilterra», col tono dell’astronauta che dice «Luna». L’Inghilterra, dopo vent’anni dall’ultima volta che ci hai messo piede, è un po’ la tua Luna.
«Ciao e buone ferie» ti augura.
«Ciao, anche a te» gli sorridi.
Metti in moto e ti dirigi a casa per sistemare le ultime cose prima di rimetterti al volante e partire davvero. Rade vetture si muovono alla deriva nel tempo sospeso e rappreso dell’estate in città, denso di occasioni perdute. Il traffico, rado, corre pigro tra cantieri di strade, viali e controviali. Milano è annegata in un torpore appiccicoso.
Le strade si risvegliano. Passi molli si trascinano sul lato d’ombra della strada; un anziano entra nell’aria artificialmente fresca di un supermercato, un vigile controlla l’incrocio silenzioso da sotto un tiglio come un poliziotto cinese sotto l’ombrellone, operai chiudono la recinzione in plastica arancione di un cantiere stradale, muratori caricano sul camioncino l’ultima secchiata di macerie di un appartamento in ristrutturazione, tecnici si arrampicano fuori da uno scavo in cui s’intravedono i grandi tubi neri coibentati del teleriscaldamento; sparsi colletti bianchi scravattati escono dagli uffici, e un esercito di tute blu sciama da fabbriche e officine; indumenti sgualciti appiccicati dal sudore guadano l’aria melmosa della città. Il silenzio si riempie di ovattati tramestii. Una nevicata, calda, di passi sull’asfalto.
«Partono per la stessa spiaggia, stesso mare; o montagna», brontoli additandoli come esseri di un mondo che non ti appartiene più. «Ah, ma quest’anno …» tuoni nel chiuso dell’auto. Pensi che non sei mai stato bravo a improvvisare frasi memorabili. Al momento buono non ti vengono le parole. Solo dopo, svanito l’attimo giusto, ti scoppia dentro una tempesta tropicale di metafore, iperboli e metonimie: lampi sfuocati, senza tuono.
«Quest’anno si parte!» esclami banale a mezza voce approfittando del chiuso dell’auto, rivolto alle strade che, risvegliatesi dal sonno pomeridiano, si ringalluzziscono come il porto di Nantucket alla partenza delle baleniere; e tu, come Ismaele… non fosse che ti chiami Cristiano.
Sul cielo si addensano nuvole gravide. Scure, volano a schermarti il sole d’Occidente sparato negli occhi; ti ricordano Udine, maggio dell’anno scorso, quando ti squillò il telefono in camera. Era Mirco, coetaneo, dirigente in un’azienda concorrente a Monfalcone.
*
«Ciao Cris, sei a Udine?»
«Sì, ciao. Sono appena arrivato in hotel. In questi giorni sono in stabilimento a Udine.»
«Andiamo allo Stabile per As you like it, stasera? Sono solo anch’io.»
«Certo, Mirco».
Alla fine della rappresentazione, in italiano, mormorasti in inglese:
«All the world’s a stage, / And all the men and women merely players;/… And one man in his time plays many parts…»
Elevasti di un tono la voce, come (così dice Bianca) ogni volta che ti escono delle parole in inglese o in spagnolo. Mirco ti ascoltò, sorrise. Commentò: «Siamo attori sul palcoscenico della vita, ognuno compreso nella propria mutevole parte, nel saliscendi delle sinusoidi …».
«Ehi, si vede che sei ingegnere» commentasti.
Sorrise, Mirco, e si fece fiume in piena. Ti spiegò che si trovava a un punto difficile della carriera. «Tornato al lavoro dopo essermi ammalato di stress, chi ti vedo in azienda? Lospirito».
Aggrottasti la fronte, al pensiero del rapporto poco idilliaco fra te e Lospirito; anzi, di Lospirito nei tuoi confronti, ché tu per indole e norma ti tieni lontano da brighe e micce, che altri vorrebbero accendere. Chiunque gli avrebbe augurato tanti accidenti quanti colpi occorrono per rompere una campana, o almeno gli avrebbe chiesto di abbassare le ali. Non tu.
«Lospirito di Trieste, il vecchio consulente in carriera, dispensatore di verità non richieste, che mi hai presentato a Roma all’associazione nazionale di categoria?»
Annuisti stringendoti nelle spalle, e dicesti: «Beh, di Trieste …». Rise, Mirco. Tu aggiungesti, meditabondo: «Rosario Lospirito … Competente, nulla da dire, imbattibile … ».
E lì ti fermasti, per evitare di aggiungere che per te lui era uno sbruffone linguacciuto in grisaglia e cravatta, e per non dire che imbattibile lo era, in protervia e prosopopea: non ti è mai piaciuto tranciare giudizi, almeno pubblicamente. Anche Mirco tacque.
Avresti voluto dirgli che davanti a persone come Lospirito rischi di ridere. Anzi, pur non avendolo di fronte ti era venuta voglia di ridere, ma non era dignitoso farlo. Ti capita. Al solo pensiero talvolta ti sorprendi a ridere in tempo e luogo inappropriati; spiritelli dispettosi ti istigano, soprattutto se di fronte hai persone tronfie e piene di sé, del genere «io ho ragione, io ho fatto», che se le cose vanno bene è merito loro, altrimenti è colpa di chi li ha preceduti o di chi ha dato loro una mano o di chi li ha comandati o di chi hanno guidato. Ci sono momenti che ti vien voglia di ridere e di affibbiare ceffoni. Non per livore o risentimento, ma per gioco; per la curiosità di vederne l’effetto sul volto dell’ignaro conversatore intento ad ascoltare se stesso: capricci che stanno buoni in un cantuccio per andarsene ogni volta inascoltati, con tuo grande sollievo. Quando ne avverti le avvisaglie sciogli il sorriso in un dignitoso sguardo accigliato come per immedesimarti nei racconti altrui, e anneghi l’incipiente risata in un secco colpo di tosse. Ma il pensiero scatenante indugia sospeso, e non c’è verso di cancellarlo. Partono allora le tue sperimentate contromosse, cui anche allora ricorresti.
Nessuno nella calca colse il gesto della tua mano che salì a coprirti le labbra, con le dita ne abbassasti gli angoli modellandole in un contegno pensoso. Pensasti che la pelle raggrinzita a zampa di gallina all’estremo degli occhi ti tradiva. Riabbassasti la mano lasciando scoperta la tua maschera, variegata nelle espressioni: la fronte, aggrottata a ispessire la ruga come cicatrice da bucaniere, rivelava il cipiglio della preoccupazione, ma ridevano le zampe di gallina agli occhi, le narici sussultavano, mentre le labbra, contratte a sopprimere il riso, parevano esprimere rabbia. Per fortuna Mirco non se ne accorse, perché sarebbe stata lunga spiegargli che non ridevo di lui.
Dopo un lungo silenzio Mirco indicò una pasticceria dal nome evocativo, “Chocolat”: «Dài, una cioccolata?».
«Come rifiutare, con i miei sette anni in Ferrero?»
Entraste in quella piccola pasticceria della Cavana che pareva uscita da un libro di fiabe. Prendeste posto a un tavolino discosto dal vociare di un gruppo di ragazzi. Commentasti: «Bene la cioccolata, anche se meglio sarebbe … ».
«Meglio sarebbe, che cosa?» disse Mirco.
«Meglio, una frittura di paranza alla Dama Bianca di Duino Porto sotto il sole ventoso di quest’Adriatico quasi sloveno, mentre le vele sfilano pigre per le prime uscite primaverili.»
Sorrise l’amico, in risposta. Disse: «Ci siamo stati una volta insieme, quando lavoravo all’azienda cartaria e giravo Italia ed Europa per gli stabilimenti del gruppo». Annuì e sorrise ancora, Mirco, in un silenzio intriso del vociare degli altri clienti. Poi riprese il discorso, interrotto prima di entrare nel locale. «Lospirito su ogni argomento esibisce insindacabili soluzioni, originali convincimenti e incrollabili certezze, da venerare come un vangelo. Viaggia fra dogmi, stereotipi e luoghi comuni, evitando sfumature e interrogativi. Per lui tutto è bianco o nero. Di solito non gli rispondo; taccio e ascolto. Lo guardo dritto negli occhi, dall’alto dell’attaccamento all’azienda che ho fatto crescere.»
Sorridesti, lo sguardo lungo. Non gli esplicitasti che anche tu in quei casi ti comportavi così, perché certo aveva già colto, dal tuo flebile annuire.
La sua voce si fece sussurro. «Vuoi che te ne dica una?»
I miei occhi dicono di sì.
«Il nuovo Presidente» dice Mirco «imbeccato da Lospirito, mi ha fatto chiedere dal suo predecessore, ing. Rovatti, di rinunciare a certe deleghe a beneficio del giovane Notari, mio vice da anni che tuttora stimo. Rovatti, mio amico, fa l’ambasciata con garbo, spiegandomi che mi verrebbero garantiti ruoli alternativi, adeguati a quanto da me realizzato finora: “Incarichi consoni alle tue capacità, che ho apprezzato negli anni: tu sei il più dotato di garbo e tenacia che io conosca”. Parole ferme ma gentili. C’è umanità, nelle stanze dei bottoni. Gli rispondo che accetto, perché mi piacciono progetti e nuove sfide. E per spirito di squadra, perché comprendo le ragioni d’impresa e di servizio; e perché credo nella correttezza, nella parola data. Nell’uomo. Ho fiducia nelle persone, sono ottimista, smusso spigoli e cerco il buono. Se qualcosa non va, metto me in discussione: la trave nel mio occhio, poi le pagliuzze altrui. Nei successi uso il “noi”. Anche quando avrei potuto usare dire “io” a proposito di risultati positivi, ho preferito il “noi”, salvo riesumarlo al sorgere di problemi. Ora il “noi” è abolito».
«E Lospirito» t’inseristi «abusa dell’“io” per i successi e del “loro” nelle imprese andate male, attribuite a colpe di un passato in cui egli non si identifica».
«Sì, un nuovo che avanza con i capelli bianchi. Ah, ma quando li vedo, quei soloni, li osservo e non commento, incasso cupo come se le critiche fossero rivolte a me, come se io fossi parte di quel “loro”. E tiro dritto. Taccio, e in cuor mio sorrido. Meglio non parlare, invece di dare aria alla lingua. Piuttosto sorrido, perché io-io-io è il verso del somaro (con rispetto per il simpatico quadrupede orecchiuto), e che è asino (senza offesa per l’animale) chi s’incensa. Sorrido ma soffro. Non ci sto a pensare i colleghi un problema e la concorrenza un nemico da annientare – come vorrebbe lui – anziché potenziale partner e leale avversario. Non è così che si fa compete, non si vende negativamente chi sta sul mercato con te. E poi, anche nei momenti più brillanti, ho rincorso punti interrogativi anziché ribattere gli esclamativi, coltivato dubbi anziché certezze. E non per umiltà francescana. Per convinzione che dal dubbio e dal confronto scaturiscano idee per affrontare nuove sfide. Mettersi in discussione è una forza, non una debolezza, in grado di far superare le debolezze stesse.»
Bevve il suo caffè ormai freddo e concluse: «Vuoi che ti dica di nuovo perché ho accettato il ridimensionamento del ruolo? Perché me l’ha chiesto Rovatti, divenuto l’azionista di maggioranza assoluta dell’azienda; ma soprattutto perché fin da piccolo in famiglia, pur incoraggiato all’ambizione e all’impegno, mi sono stati inculcati l’umiltà, l’equilibrio, l’autoironia, la consapevolezza della caducità; mamma mi dice, quando le racconto le belle cose che la mia azienda sta facendo o progetta: “Mirco, la vita è fatta a scale, c’è chi scende e c’è chi sale, chi in troppo in fretta sale, precipitevolissimevolmente poi discende!”. E io ero giunto al culmine. Lo sapevo, che dovevo scendere. La vita è un ottovolante, su cui assecondare le curve senza cedere ai compromessi, attenti a non deragliare».
Non commentasti. Non una parola era fuori posto, avresti sottoscritto subito il discorso dell’amico. Perché pure tu hai in mente persone come Lospirito. E avresti voluto aggiungere che ogni traguardo personale raggiunto è un di più, una fortuna; e che quell’ottovolante che è la vita non è sogno ma parabola, sinusoide di cui apprezzare tutto. Salite e discese. Perché dopo la discesa c’è una nuova salita, più esaltante delle prime se non la si trasforma in scalata. Importante è sorridere di sé; fare il proprio dovere senza prendersi troppo sul serio. E poi vivere, e viaggiare.
Ma rimanesti zitto.
*
Non c’è nessuno, nel condominio liberty di via Gallarate. L’appartamento è buio. Apri una sola persiana per non far entrare il caldo, con la luce. Dai un calcio alla borsa del computer per mandarla sotto il letto e nasconderla ai ladri, slacci giacca e pantaloni sgualciti da uso e sudore, allarghi il cappio già lasco della cravatta a righe rosse e blu, la sfili e riponi tutto in ordine sulla gruccia. «Già saremo stanchi per il viaggio e avremo i bagagli da disfare e rimettere in ordine, non vorrai farmi trovare la casa troppo in disordine, vero, Cris?»- disordine, – ti ha retoricamente ripetuto Bianca nei giorni passati, severa e indulgente, elencandoti al telefono le ultime incombenze, lei già in montagna con i bambini. In quel «troppo» ogni estate ti ritagli un margine di discrezionalità a seconda del livello di pigrizia, intraprendenza, caldo, stanchezza e amor proprio. Dalla tua interpretazione di quel «troppo» dipende la reazione di Bianca al ritorno.
Accertato che le pentole sono linde e asciutte in compagnia di due piatti e tre posate nella lavastoviglie accesa ieri notte, e che le scatolette vuote di fagioli e di tonno alloggiano nel sacchetto gonfio della spazzatura sul balcone, ti dedichi ai bagagli, più volte fatti e disfatti nelle interminabili, solitarie sere precedenti. Come scorrendo la checklist del lancio di un missile ricontrolli gli indumenti nel borsone – pochi, essenziali, perché alla fine s’indossano sempre gli stessi; cacci una mano nello zaino: macchina fotografica, videocamera, matasse sgrovigliate di caricabatterie, adattatori di corrente, telefonino, giubbettino impermeabile, una cartellina con copia delle carte d’identità di tutti, appunti per il viaggio, codici delle prenotazioni per i traghetti, mappe, indirizzi e numeri telefonici delle prenotazioni in Inghilterra e in Francia.
Richiudi la persiana, pinzi due cuscini sotto l’ascella, prendi chiavi di auto e di casa, infili in tasca le prime, appendi lo zaino a una spalla, uncini con un dito il sacchetto della spazzatura e con una mano il borsone, caracolli verso la porta, ne afferri la maniglia e, pronto a chiudere, chiavi in mano e un dito sull’antifurto, ricordi di non aver chiuso la saracinesca dell’acqua. Grugnisci e getti tutto a terra, compreso il sacchetto della spazzatura fortunatamente ben annodato, torni sui tuoi passi brancolando nel buio per non riaprire le persiane, accendi la luce e ti dirigi al bagno. Le dita, viscide di sudore per l’affanno e il caldo appiccicoso non lenito da un filo d’aria in quella casa sigillata come un caveau, scivolano sulla manopola centrale dell’acqua. Il rubinetto non gira: conti le gocce di sudore che ti rotolano giù veloci dalla punta del naso.
«Holy shit!» imprechi al colmo dello sforzo e della tua scala d’ingiurie, in inglese per darti un minimo di contegno. Sorridi. Prima al pensiero che il secondogenito Luca in terza elementare disse fra il malizioso, il divertito e l’ingenuo alla maestra d’inglese, accertatosi dell’attenzione dei compagni: «Maestra, il mio papà se batte la testa col rubinetto del lavabo quando si lava i capelli, dice “holy shit”!»). Poi perché la manovra ti funziona. Gira, la manopola.
Con mezzo sorriso bagnato di sudore torni all’atrio. Imprimi un calcetto al borsone (su cui ballonzolano i cuscini) per sospingerlo a strascico sul pavimento, fino alla porta. Riappendi lo zaino a una spalla, due dita ripinzano il sacchetto della spazzatura e con l’altra mano apri il portoncino, da cui esce un piacevole refolo di aria dal pianerottolo. Assapori l’alito fresco sulla pelle bagnata.
«Ah, questi muri spessi!» esclami compiaciuto e ti contorci per non incastrare lo zaino fra portoncino e porta della bussola, mentre di tacco smuovi lo zerbino per far scivolare con una pedata il borsone con sopra i cuscini, che si ferma davanti alla porta in ferro dell’ascensore. Nel buio della bussola digiti a tentoni il codice dell’antifurto.
«Bloody hell» sussurri nel silenzio. Indovini la tastierina al tatto come un cieco su una pagina Braille, armeggi e finalmente s’illumina il led verde nel nero della bussola. Soddisfatto, chiudi la porta e dai quattro mandate.
«Mission accomplished» esclami confidando nel deserto del condominio. Tu, Democrat sino all’osso, ti senti il George W. Bush che nel maggio 2003 sulla portaerei USS Abraham Lincoln annunciava la fine delle operazioni in Iraq.
Ti chini, raccogli il borsone, rimetti i cuscini sotto l’ascella. Fai un passo e parte la sirena dell’antifurto. Sempre così. L’impianto fa le bizze quando non deve. Rimani piegato a novanta gradi, la mano stretta sui manici del borsone, indeciso sul da farsi. Digrigni i denti, ringhi e grugnisci in silenzio, molli la presa, raddrizzi la schiena e ti accingi a un poco dignitoso dietrofront.
«Dannata sirena» esclami a sovrastare il gnaulio dell’antifurto. Getti a terra il sacchetto della spazzatura, riapri il portoncino di rovere, con zaino in spalla ti reincastri nella bussola per ridigitare il codice dell’antifurto. Sicuro che il cocktail di rumori annuncia la tua partenza a tutti i topi di appartamento del quartiere. Certo c’è un ladro tutto tuo, appostato a pochi metri. O la signora Cappellini cui devi consegnare le chiavi di casa, pronta a scambiarti per uno scassinatore. Parti più in silenzio quando siete in cinque: alla chetichella, senza parere per non dare nell’occhio dei ladri che certo ti osservano, come per scendere a comprare il giornale nel chiosco sotto l’infilata di platani nel corso sotto casa; alla stessa tecnica hai addestrato i tre figli, che di solito ti aiutano a caricare bagagli nel garage a cinquanta metri da casa, un pacchettino alla volta, in un’infinita quanto sospetta processione di re magi. Fingi un dialogo per far credere all’eventuale ladro che la casa sia abitata: «Allora tu non esci, ah, sì, bene, a dopo, dunque, ciao».
Ridigitato per la terza volta il codice, ti mordicchi il labbro inferiore fino a sentire il gusto ferrigno del sangue. Maledici a denti stretti l’antifurto strepitante, inserito, disinserito e riattivato, richiudi, esci per la seconda volta, fronte e schiena grondanti sudore e il labbro stillante sangue come la gamba di papà ferita da una scheggia di bomba a mano a Enfidaville nel ‘43.
«Ma quanto sangue?» ti domandi risucchiando l’umore ferruginoso dalle labbra, inarrestabile.
*
Ti riarmi di spazzatura, borsa, zaino, cuscini, e t’infili funambolico nell’ascensorino già stretto di suo, reso più angusto da bagagli, mercanzie e calore. Per renderti presentabile, col dorso della mano che artiglia il sacchetto della spazzatura ti detergi il sangue dal labbro. Su quella mano ti rimane una striscia rossa sulla pelle, e con l’altra ti asciughi il sudore che dalla fronte ti solletica fino al mento.
Ti divincoli fuori dall’ascensore e suoni alla signora Cappellini. Attendi. Silenzio. Risuoni e ascolti il tuo respiro. Anche lei è partita? Ti cade il sacchetto della spazzatura, si apre e disperde sullo zerbino una lattina schiacciata e un quarto di pomodoro marcio. Non hai nemmeno differenziato i rifiuti. “Ma tanto, per così poca spazzatura …” pensi stringendoti nelle spalle. Ti rimordi il labbro, rimolli il borsone e i cuscini, raccogli il marciume e la lattina, rifai il nodo al sacchetto, te lo riappendi a due dita della mano macchiata di sangue.
Quando ormai hai deciso di partire senza lasciare la chiave a nessuno, un passo ovattato s’avvicina alla porta. Si ferma. Senti un lieve armeggiare alla porta, certamente l’aprirsi e il chiudersi dello spioncino dietro cui la signora ti sta squadrando, e una voce flebile: «Chi è?». La voce ti suona ambigua. Come se lei attraverso la lente dello spioncino ti avesse già riconosciuto, radiografato e un po’ disprezzato avendo visto (e per fortuna non ancora percepito all’olfatto, ché attraverso il legno persino i potenti recettori della signora nulla possono) del tuo sudore.
«Bonforte» mugoli succhiandoti il sangue del labbro. Chino sui bagagli, riafferri il manico del borsone viscido di sudore e ripinzi i cuscini sotto l’ascella.
La vicina schiavarda le tre serrature, che rimbombano nel vuoto del pianerottolo, sonore come in una prigione medievale. Tu raddrizzi la schiena e conti i giri di chiave. Troc troc tac tac truc truc tac, come una musica futurista. La porta si spalanca e finalmente ti appare il suo figurino, esile e piccino. Ti squadra dall’alto in basso nonostante la spanna abbondante in meno di statura, come a confermarsi il giudizio costruitasi da dietro lo spioncino.
«Buongiorno signora, come sta?» saluti suadente facendo ricorso al repertorio di frasi di circostanza: sei uomo di scarno eloquio ma di gran gentilezza e buon sorriso, in ossequio all’origine piemontese. Per correttezza anglosassone non l’hai mai chiamata signorina, nonostante il suo orgoglioso nubilato. Peccato non ci sia in italiano l’equivalente di Ms, costringendoti a usare vocaboli ambigui come, appunto, «signora». «Visto che caldo?» aggiungi.
«Più che vederlo, lo sento» risponde la Cappellini; ti fissa, arriccia il naso: per la mano macchiata, il sacchetto della spazzatura appeso da cui spunta la lattina, il sudore che ti brilla in fronte, o per il tuo modo di esprimerti?
Abbassi la mano, la porti dietro la gamba a nascondere sangue e sacchetto e, ritto sulle spalle, lo sguardo belante, flauto lieve come frullo d’ali: «Ma disturbo? Gentilmente posso lasciarle in consegna le mie chiavi?».
Silenzio. Lei continua a squadrarti attonita. O schifata, oppure stanca. Tu rimani lì, sudato e sanguinante, forse persino puzzolente, due cuscini sotto l’ascella, borsone in mano, spazzatura nell’altra e zaino pendente da una spalla. Ti penti di quel «gentilmente» che le hai detto; è ambiguo: gentilmente le lasci le chiavi o gentilmente le prende in consegna?
La Cappellini, in pensione dopo decenni dietro una scrivania agli acquisti della Falck di Sesto, vive con la vecchia madre malata; si somigliano, le due, esili nella voce, minute nella corporatura e gentili nel tratto. Come la madre, lei è un’amabile signora della piccola borghesia lavoratrice: sabauda nella precisione e nel puntiglio, eppure è una meneghina calzata e vestita; dalla sua maschera cortese talora traspaiono ruvidezze inattese, mai smussate dalla quotidianità con un compagno di vita mai cercato, né addolcite da imprese di figli che non ha desiderato avere. Facile che le salti la mosca al naso. Finalmente risponde: «Ah, non si preoccupi, dottor Bonforte. La mia mamma sta morendo».
In quella frase senti del sarcasmo, misto a disagio nell’averti di fronte; e del rimprovero, misto a dolore, sollievo e giustificazione per non poterti dare ascolto, ora. Come sarebbe «non si preoccupi»? Non ti devi preoccupare di disturbare o per sua madre che muore? Non sai che dirle, non hai voglia di farti riprendere come uno scolaretto. Ti assale l’imbarazzo, il senso di colpa, la vergogna persino, per trovarti lì a chiedere un favore alla signora, la cui anziana madre ignoravi fosse arrivata al capolinea. La lentezza dell’incedere nella vita di un anziano rispetto all’affannarsi della vita porta a credere che le loro infermità possano protrarsi in eterno. Poi arriva il momento e ci si stupisce. Della loro mortalità, persino. E poi, diamine, morire quando tutti gli altri partono per la vacanza. Non è giusto e basta: persino indelicato per chi resta. «Non si muore, in vacanza e a Natale» vorresti dire, addolorato per la povera signora Cappellini più che per sua madre che ha pensato bene di morire in quei giorni. Ti mordi il labbro: punizione per il cinismo del pensiero. Ma ormai sei in campo, devi giocare. Mormori solo: «Non sapevo, scusi …».
«Non si preoccupi, mi dia le chiavi. Mi dica solo cosa devo fare se l’antifurto suona» taglia corto, con tono monocorde. In quelle poche parole, sgranate a bassa voce, c’è la dignitosa rassegnazione di chi avendo combattuto per anni con la malattia di una madre morente, intravede la prospettiva di un’esistenza nuova, più vuota e tranquilla.
«É facile, basta inserire la chiave magnetica». Taci e la guardi. Nel suo sguardo interrogativo leggi una richiesta di chiarimento.
Molli a terra, ancora, armamentario da viaggio e spazzatura. La inviti a seguirti di sopra. Salite alla tua porta; lasci che la Cappellini ti prenda dalle mani il mazzo di chiavi e che attivi e disattivi due volte l’impianto, ogni volta facendo suonare la sirena per qualche secondo, mentre tu temi per i ladri di certo in ascolto. Contenta, ti recita le fasi della procedura di disinserimento dell’antifurto, quasi fosse il decollo dell’Enterprise.
Ti pare gentile ripeterle: «Benissimo, ricordi solo che se appare la lucina verde, tutto bene, se invece …».
«Non m’interrompa» tuona severa la signora «ché poi sono io a rimanere a casa. Sempre, devo fare tutto io. Devo sapere come fare …».
“Proprio per questo, signora” pensi, guardandola muto mentre lei parla e parla, “cercavo solo di dire la mia su casa mia. E poi questa storia degli ‘io’ l’ho già sentita”.
La signora, soddisfatta di aver recitato la lezione a modo come certo faceva a scuola (la immagino pulitina, frangetta corta e trecce fermate da un fiocco rosa pastello), ordina: «Scendiamo, ora».
L’indolenzimento dei muscoli facciali ti ricorda che per tutto il tempo hai sbandierato un gran sorriso, mentre rimugini che mai partenza per le ferie è stata annunciata con tal grancassa a tutti i ladri del quartiere. Lei indica le chiavi, strette nella sua mano, e conclude: «Queste le metto al sicuro. Anzi, guardi» dice con sguardo complice «mostro anche a lei il nascondiglio, così siamo sicuri che non le perdo».
Ti fa cenno di seguirla in casa. Sorridi, non puoi che obbedire. Insieme, guadate il silenzio e un lago di odori di cera per mobili. In sala lei apre un cassetto dello stipo antico e vi adagia le chiavi, fra una cartella di conti condominiali e la calcolatrice tascabile dai tasti consunti per l’eccessivo uso, invitandoti (col tono di un sergente dei marines) a memorizzare il nascondiglio. Annuisci mentre cerchi di distendere i muscoli del viso, doloranti per tutto quel sospendere il sorriso, fisso come una maschera greca, quindi ringrazi e saluti, con la promessa di una cartolina a rammemorarle i posti da lei visitati in gioventù, come le è scappato di confidarti tempo fa in un momento di debolezza, lei impermeabile a confidenze. La Cappellini saluta e si barrica in casa al suono dei nove giri di chiave delle tre serrature, mentre un grammo di sorriso sale a illuminarle la severità del visino bianco.
Tu riprendi da terra il sacchetto dei rifiuti, lo appendi a un dito, riassesti i cuscini sotto l’ascella marcia, prendi il borsone, ti accomodi lo zaino sulla spalla e entri in ascensore. Ti montano le prime fitte di emicrania. Al piano terra esci dall’ascensore, ti avvicini all’uscita, spalanchi con un piede il portone di casa e esci in strada, dove vieni avvolto da una luce bianca, immobile, pastosa, umida e calda come i cieli di Pechino.
Sul marciapiede ti fermi. Hai dimenticato il caricabatteria del telefonino. Rientri nella frescura dell’androne, rimolli tutto nell’atrio del condominio, risali in ascensore, riapri, ridisattivi l’antifurto evitando rumori perché la Cappellini (sicuramente in agguato) non ti senta e ti dia altre lezioni, poi afferri il caricabatterie da una sedia e lo cacci in tasca. Riattivi l’allarme, richiudi la porta, riscendi, riafferri il borsone, riappendi lo zaino a una spalla, rimetti i cuscini sottobraccio.
«Ma il rubinetto del gas?» brontoli a mezza voce in unisono alla chiusura del portoncino di casa; ti stringi nelle spalle, riappendi alla punta di una falange il sacchetto della spazzatura, lo molli nel primo cassonetto maleodorante, apri il garage, carichi l’auto benedicendo la lungimiranza di aver già portato il grosso dei bagagli giorni prima in montagna, dove ti aspettano Bianca e i ragazzi. Avvii il motore, manovri la monovolume blu aziendale, ridiscendi, chiudi la porta metallica del garage. Dai un sospiro di sollievo, detergendoti le gocce di sudore che indugiano sulla punta del naso dopo averne percorse le gibbosità, postumi di uno scontro a piedi con una porta a vetri automatica dell’azienda, troppo lenta ad aprirsi rispetto ai tuoi passi frettolosi: «Per andare dove?» ti ammoniva sempre Bianca.
Finalmente. L’aria condizionata dell’auto ti asciuga addosso il sudore. Ti lasci andare al rado traffico cittadino e al blatericcio di una stazione radio sulla quale con gesto automatico ti sintonizzi a basso volume. La strada si riempie di foglie secche dell’autunno scorso, mulinanti per le improvvise folate di vento che spingono, in alto, cumuli grigi a volo radente.
*
Taci (cosa in cui sei maestro). Incomincia la vacanza, annunciata dal taglio di capelli da marine che ti solletica piacevolmente il palmo al passaggio della mano. Un bagliore attraversa l’autostrada, sotto nuvole gravide. «Criminali» esclami, immaginando teppistelli che dai cavalcavia infilzano col laser i parabrezza delle auto. «Farabutti», gridi, come quando di notte ti piovvero sassi dal cavalcavia della Savona-Torino guidando la Prisma di seconda mano al ritorno dal mare. Eri solo, come adesso. Rallenti, una mano sugli occhi a schermarli dal riverbero raddoppiato dalla polvere sul parabrezza, come nelle mattine di dicembre col sole basso e dritto a Oriente. Trovi al tocco gli occhiali da sole. Li indossi. L’ingorgo peggiora.
Ti sorge un ritmo in testa. Poesia? No, come un mugugno d’osteria, allegro filastroccare. Con un dito batti il tempo sul volante. Una canzone. Ti si forma una strofa. Guardi fuori. Nessuno ti vede. Canti, nel chiuso dell’abitacolo: « … anche mio cugino Aristide aveva la macchina, ferma però, gh’è durmiva denter …. ostia Aristide .. .e rideva semper …». Vorresti ridere, come l’Aristide. O come Gigetto Scarpelunghe che cantava a squarciagola per la via. O come te stesso quando a giugno, finita la scuola, indossavi i sandali con i due buchi davanti (i pantaloni corti li avevate tutto l’anno) e la maglietta a righe orizzontali comprata al mercato di via Maestra. Ridevate, al tuo paese a due ore d’auto da Torino. Eppure, anche allora, terrorismo e bombe. Bombe come queste di Londra, pochi giorni fa.
Milano ti ha accolto, dopo la laurea, elargito illusioni, sogni e miraggi. Ancora oggi devi spiegare ai colleghi che se si viene da Alba mica si mangia tartufi tutti i giorni. Per te neppure ogni anno, e neanche ogni decennio. C’è chi pensa che la domenica ne consumate con la facilità di una meringa con panna, voi che venite dal catino incoronato di colline e torri dove si agita tranquilla la città, formichina divenuta gigante grazie al lavoro quotidiano, all’inventiva degli abitanti e, secondo leggenda, persino in virtù di misteriosi tesori.
Con gli anni la nebbia si è diradata e ora ne sai di più. Un amico prete questa primavera ti ha aperto spiragli. Non poteva che essere un prete a farlo, nella città del Beato Giacomo Alberione e della Grammatica Ricoandri de Villa Dei. Il prete ti ha fornito i bandoli – i caviùn – per sgrovigliare vecchi fatti di cronaca che, letti su qualche giornale, dopo averti rivoltato l’animo come si faceva del cappotto, svanirono nel melmoso incedere del quotidiano per poi ribussare alla tua porta. Hai voluto capirli, collegarli, rendere visibili i fili per dare un senso a punti isolati e in apparenza insignificanti; unire i nodi del grafo; svelarne il mistero, convinto che per guardare al futuro, gettare lo sguardo lontano e costruire il domani, occorra fare un passo indietro, scrutare il tessuto del passato, scavarlo e ricucirne lembi dalle trame irregolari, talora invisibili.
*
Freni. Ti rabbui. Sul sedile accanto, la copertina del «Time» fa capolino da sotto la «Stampa». La foto di una donna retta da un giovane dopo l’attentato nella sotterranea londinese, pupille vacue dietro una maschera bianca di garza, ti atterrisce. Ti tornano i dubbi di Bianca sul salire a Londra in questi giorni. “Tipica situazione da sigaretta, se non mi fossi fermato ai due tiri di Milde Sorte con Rico dietro un’auto nello slargo dietro la chiesa di San Damiano, e alla mezza boccata di Belomarkanal russa, a dodici anni a casa dietro la libreria della sala”, rifletti. Pensi alle sigarette dello scrittore che aveva scelto di non entrare nella fabbrica del cioccolato, e per strana associazione a Padre Girotti, il sacerdote domenicano albese che, bambino, dopo aver servito messa saliva con un amico sul campanile del Duomo, e ammise: «Davanti a tutta Alba sotto il nostro sguardo, imparammo a fumare insieme una sigaretta». Pure ne avresti, situazioni da sigaretta. Ad esempio lo scambio di battute avuto questa mattina con Rosario Lospirito, il vecchio consulente capace di sgomitare come un discolo a dispetto dell’età e rodere fra le maglie dell’organizzazione, lui e i suoi discorsi conditi di «io, io, io».
Non fumi ma alzi il volume della radio e ti rosicchi le unghie della mano sinistra, risparmiandoti la destra, occupata a cambiare: prima seconda prima seconda. Afferri la scatolina dal cassetto del cruscotto tra fatture, scontrini da rimborsare sbiaditi dal sole, custodie di CD e fogli di lavoro; fai cadere sulla mano sinistra un chewing-gum. Guardi avanti a cercare un orizzonte impossibile, nella visuale spezzata; le auto davanti ti chiudono come fossi un galeotto nel pozzetto di prua su una nave per la Nuova Olanda, senza però la presenza del mare. Non vedi l’ora di vedere il mare del Devon dove arriverete fra due giorni. Ecco, se non Ismaele, Marino ti sarebbe piaciuto, come nome.
«Queste notizie della radio» mastichi con disappunto. «Inquietanti. Per fortuna c’è questo cielo colorato dal temporale, dopo giorni di calura».
Per errore azioni i tergicristalli, che si risvegliano gocciolanti nel loro ipnotico swing. Li fermi. “Domani partirò, con moglie e tre figli che recupererò questa sera in montagna. Tre settimane, come i tre anni di Ismaele. L’auto sarà la mia Pequod”. Sorridi, al pensiero del soprannome affibbiato all’automobile. «Per regolare la circolazione», dici a voce alta.
Ti duole il muscolo della tibia sinistra per il sospendersi a mezz’aria del piede e la pressione sulla frizione. Premi, sollevi, schiacci e alzi. Nello specchietto centrale scorgi la coda di auto e una porzione del mio viso. Gli angoli delle labbra volgono in su, come un sorriso, nonostante questi rallentamenti. Riallunghi la visuale sulle auto più lontane, tante costole di una serpe strisciante.
Nelle movenze nervose di chi guida s’indovinano gli affanni dell’ultimo giorno e le attese di buone cose. Il minimo vivace della Pequod brontola a ogni fermata come a reclamare più ampi spazi, impaziente di mollare gli ormeggi e prendere vento. E tu ti senti osservato come su un palcoscenico. O un pesce pagliaccio in un acquario. (Nessuno ti paragonerebbe a uno squalo.) E dici forte a te stesso sperando che nessuno, fuori, ti prenda per pazzo vedendoti parlare da solo: «Diverso da Achab, Starbuck, Queequeg e Ismaele, soli sulla baleniera che si allontanava da Nantucket, quel freddo giorno di Natale».
Senti pioverti addosso occhiate da fuori. Qualcosa non va? Forse la capigliatura macchiettata di grigio, folta ma decespugliata come un marine grazie all’intervento estivo del tuo barbiere? Il sorriso, mai sparito? La ruga che ti ara verticalmente la fronte a destra, incisa da un erpice kafkiano a scrivervi ansie di lavoro accumulate negli anni, quando saresti potuto starmene nella fabbrica del cioccolato? Il fatto è che, come da bambino, non reggi gli sguardi.
Il temporale ha raffrescato l’aria. Spegni l’aria condizionata e apri i finestrini, da cui fugge il chiacchiericcio dell’autoradio come sabbia fra le dita: esce dalla Pequod, s’insinua attraverso i finestrini delle poche auto prive di aria condizionata, si mescola a fumi e miasmi di ferodi, frizioni, gas di scarico, barbugli radiofonici, applausi, canzoni, risa, jingle pubblicitari. Tutto inascoltato, a giudicare dalle facce, occupate in conversari telefonici dei quali ti arrivano brevi ondate di risacca, a seconda della posizione della reciproca posizione. Da quelle sigillate in aria condizionata giungono muti movimenti di labbra, dai quali ti diverti a intuire parole e frammenti di frasi.
Il traffico è fermo. L’ora, quasi serale, ancora risente del traffico dagli uffici. Troppi occhi addosso di persone chiuse nel proprio acquario a osservare altri pesci che nuotano, anch’essi imprigionati nelle loro scatolette di latta. Hai il tempo, a tratti, di ascoltarne musiche e discorsi, grazie ai finestrini abbassati. Magari, potessi salutare tutti con un canto marinaro e salpare nel vento.
Il vicino di coda a sinistra, gomito molle poggiato al finestrino, ti fissa molesto. A te non piace essere osservato. Come quando leggi o scrivi e qualcuno sbircia da dietro le spalle; «at patisi ‘l beich», patisci lo sguardo, ti diceva ridendo mamma da piccolo, a giustificare (non stigmatizzare) la tua timidezza. Tu la guardavi con i tuoi occhioni tondi sistemandoti il cravattino al collo. «Devi mostrare i denti al lupo» ti diceva. Brava, lei. Tu ti mettevo allo specchio e ti osservavi i dentini da latte che non volevano far posto a quelli da adulto.
Ma che cos’ha da guardare quel tizio? Non telefona, non ascolta musica. Acceleri quando ti affianca, indugi quando parte. Chiudi il finestrino, come se il vetro fosse impenetrabile agli sguardi. Accendi al minimo il condizionatore. Ignori le ultime alla radio sulle indagini per gli attentati a Londra. L’individuo ti osserva, tu lo scruti di sghimbescio, come fai sui treni col giornale del vicino o da bambino quando origliavi le parole di chi ti sedeva di fronte. Egli allunga la mano destra sul cruscotto e subito esce il percuotere ritmato, grave, eguale, psichedelico, di musica house. Benché non abbia la faccia di uno cui piaccia quella musica, il tizio l’ascolta; pare ammicchi. Intuisci con sollievo che non guarda te; osserva fisso un punto oltre la tua spalla destra: il guardrail. Non vede ciò che guarda e non ascolta ciò che sente. Il guardrail sfila lento, fra un’automobile e l’altra. Ipnotico come un pendolo. Anche quell’uomo, ubriaco di lavoro, come te pensa alle cose che avrebbe potuto fare, ancora.
Il notiziario è disturbato dal ritmato della sua musica, che si mescola al grattare dei motori e al bro-bro di altre radio. Un cartello indica l’autostrada per Pinerolo. Sterzi a destra evitando all’ultimo il guardrail fra una carreggiata e l’altra ed entri in autostrada. La fila si sgrana; ti volti. Il viaggiatore misterioso è svanito.
*
Si corre. I pensieri si sgrovigliano. Li riordini a gomitolo, come quando aiutavi mamma con la lana fino a farti dolere le braccia puntate dritte in alto come il prete al Padre Nostro, e col formarsi della palla sgravavi i polsi sospesi. Chiudi la radio e metti un CD. Rispegni l’aria condizionata e riabbassi il finestrino. Entra un refolo tiepido. Le montagne emergono nella foschia lavata dalla pioggia. Il loro zigzag rarefatto avanza lento; una sagoma sfuocata, mentre il cielo si colora. Non ne hai mai imparato i nomi, a differenza di papà che li snocciolava a memoria e li dipingeva pure. Respiri a pieni polmoni, come esortava mamma le poche volte che si andava in montagna. L’emicrania svanisce. Una farfalla bianca vola di fronte a te. Non fai in tempo a osservarla né a schivarla. Si spiaccica sul parabrezza. Non osi azionare il tergi. Canticchi Streets of Philadelphia. «Ain’t no angel gonna greet me/ it’s just you and I my friend». Emoziona il ritmo, cadenzato come i marinai inglese al levare dell’ancora.
Entri alla prima stazione di servizio. Accosti alla pompa più distante. Musica di The Ghost of Tom Joad. Alzi il volume, scendi. L’aria profuma di ozono, terra, erbe e pioggia; e di mari del Nord. Fai tre passi avanti sotto la tettoia per allargare la visuale fino al Monviso, la vetta tagliata dalla lamiera della tettoia. Piede sulla transenna, mento poggiato sul pugno destro, ti senti alto benché non più taglia 48 drop 8, con i tuoi capelli sale e pepe a spazzola e il pullover enorme di cotone, comprato in un outlet californiano; azzurro all’acquisto, l’hai tinto blu scuro e passato tre volte in lavatrice, illuso che acqua e calore lo restringessero. Ora pare quasi indossabile: ma al minimo refolo ti sfarfalla, mollemente beffardo, attorno ai fianchi.
«Buongiorno, quanto?»
Dalla pompa ti dà gran voce – erogatore di gasolio in mano – il ragazzo pronto a servirti, sguardo alla medusa blu ondeggiante sulla mia schiena. Lo ignori. Non per posa o indifferenza; ma perché osservi le automobili che in trenta sfumature di grigio scappano verso le montagne.
Se il ragazzo con l’erogatore in mano ti leggesse lo sguardo, scorgerebbe un accenno di sorriso. Il benzinaio in tuta rossa attende risposta. Non ha tempo da perdere, ma neppure urgenza che tu liberi lo stallo, perché altri due sono liberi. L’addetto fa spallucce, riaggancia l’erogatore e va a servire gli ultimi clienti che si affrettano a fare il pieno prima della chiusura. Il tuo pullover blu gli risponde, tardivo, con un passo di danza nel vento caldo.
Le nubi sfilano alte. Vi scorrono strade dei libri, dei dischi, dei film, e assaggiate in America. Pianti le mani nelle tasche dei bermuda. Le interstate nel deserto, i tramonti sui canyon e nella Monument Valley, la wilderness di Thoreau, il Montana, gli orsi del Wyoming. Le ferrovie e le strade annegate nel deserto a Paris, Texas. La strada di pianura, solitaria e silenziosa, dritta e infinita dell’Intrigo internazionale di Hitchcock: il silenzio, le mitragliate su Cary Grant dall’aereo che irrora campi di mais. E treni, come il merci da cui saltò William Davies il poeta, rimettendoci un piede sotto le ruote: vagabondava come un hobo, avvinghiato ai respingenti o al carrello delle ruote, o seduto, gambe penzoloni dal vagone merci, a pochi centimetri dalle ruote, precise a quelle che avevano tranciato di netto il piede del collega di papà, in Francia. E l’esame di Storia del Nord America, senza lode per «il troppo entusiasmo nell’esposizione». Già, non sta bene, appassionarsi. Sei dentro un film di Peckinpah o una pagina di Kerouac. C’è pure Leroy Parker, il fuorilegge Butch Cassidy che assaltava treni e morì in Bolivia. Ma anche il North Dakota della Guerra Civile di Cold Mountain o del Little Bighorn. Il tramonto sul Grand Teton. Gli autunni rossi del Maine. Le onde del mare. Per sentirne l’odore nella canicola di luglio in città hai tradotto, la notte, un racconto di Marquez su un naufrago. Eri a Milano e, scrivendo di mare, ti credevi al mare con Bianca, Bea, e Chicco che aveva meno di un anno.
«Ehi, capo, mi scusi! Posso servirla, ora? Quanto vuole?» ti domanda di nuovo l’addetto in tuta rossa della stazione di servizio. Scalpita nelle gambe e nella voce, impaziente di rifornirti e terminare il turno. Agita la mano come a svegliarti. Tu, fuori dal perimetro della tettoia, non ti volti. Odi che ti si dica «capo», tu che da direttore ti firmi col nome e cognome evitando il dott. come la peste. Gli rispondono le vele del pullover, risollevate da uno sbuffo di vento. Borbotti: «Tonight my bag is packed/ tomorrow I’ll walk these tracks/ that will lead me across the border».
Le montagne ammiccano, il sole si accuccia e le auto corrono. Indugi, eppure hai fretta di partire. Almeno quanto l’urgenza del ragazzo alla pompa.
«I know love and fortune will be mine/ somewhere across the border.»
«Mi scusi capo, quanto le metto?» insiste il ragazzo, battendoti lieve sulla spalla.
«Ah, sì, scusi lei. Pieno, grazie. Diesel, per favore» rispondi gentile e col sorriso che a volte ti sono stati d’aiuto e talora d’impaccio. Ti avvicini.
«Bella questa macchina. Ma va bene?» ti chiede il ragazzo, riempiendoti il serbatoio. Hai l’impressione che «bella questa macchina» te l’abbia detto con cadenza lombarda come la canzone che hai in testa da Milano: «Sta macchina c’ha tutto, freni, frecce, anche la marcia indietro?». Indeciso, muovi la mano destra sul tettuccio di Pequod come ad accennare una carezza. Sorridi.
“E’ la più bella macchina che io abbia mai avuto” pensi. “Meglio della Ritmo verde salvia, terza mano, e delle altre di seconda: Prisma, Tempra, Marea; meglio della Multipla, prima auto nuova, da dirigente. E i miei non l’hanno mai avuta, l’auto”. Ridi, come l’Aristide; e Gigetto di Alba che rideva e cantava sempre. Il pullover blu ti balla il charleston.
«Verifichi olio e pneumatici, per favore. Devo fare un viaggio. Lungo» aggiungi languoroso, non richiesto, e indichi una cartina stradale aperta sul sedile anteriore destro, coperta a metà dal numero di «Time» che spara la foto della maschera da tragedia greca della signora dal volto coperto di garza con tre fori per occhi e bocca, aiutata dal ragazzo con occhi sbarrati a tirarsi fuori dalla metropolitana londinese, dopo l’attentato. Sparisce il sorriso. Ripeti, più a te che al ragazzo, «un viaggio molto lungo». Quindi paghi e saluti accennando un gesto della mano, rimonti e riaccendi il motore. Lo schermo del navigatore s’illumina sulla prima meta del viaggio del giorno dopo, preimpostata: Gevrey-Chambertin, nei vigneti di Borgogna tra Nuits Saint George e Digione.
Molli le cime e sull’asfalto ancora umido salpi liscio, schiena dritta come Achab piantato sul cassero, gamba d’avorio di capodoglio infilata nel buco del tavolato del ponte di comando come le scodelle di riso stracotto ai fagioli dell’asilo di papà a Neive, incastrate nel tavolone.
Pensi ai partigiani che cinquant’anni fa lottarono in queste valli sotto la neve. Altro che queste serate d’estate. Ti verrebbe da deviare su Inverso Pinasca, se non fosse così tardi, a vedere la lapide che commemora un giovane partigiano: «Su questi monti / al compimento ormai / di un ultimo atto / di fraterno solidale amore / Paolo Diena / combattente della libertà / suggellava / con il dono di se stesso / la luminosa giornata della sua vita terrena». Letta su un libro, la ricordo a memoria.
*
Bella e comoda, la tua Pequod aziendale, ma priva di fronzoli, come doveva essere la baleniera di Ismaele.
«Esageruma nen», esclamano dove sei nato, tesi a rimanere al centro, lontani da estremismi. Ad esempio la memoria delle colline tramandata dal tuo papà non è quella della Malora fenogliana: fortunato lui, che pure dormiva in una camera – granaio, ma nella sua infanzia nella casa di campagna a Neive invece di sfregare la fetta di polenta contro l’unica acciuga appesa a un cordino, i bambini concedevano nascostamente al micio il piatto da pulire che veniva una bellezza, pronto per la successiva pietanza. Papà era consapevole che c’era di peggio, perché a scuola di bambini che sfregavano la polenta all’acciuga ce n’erano. Ma senza esagerare.
Il non esagerare vale anche nello spendere. Perché? Un po’ la dottrina cristiana che permea quelle colline, assimilata più nelle sfumature luterane che in quelle cattoliche, tanto da indurre Fenoglio a pensare che nell’epoca giusta avrebbe combattuto al fianco di Cromwell. La capacità anglosassone di andare dritti nel cuore delle cose, è solo una speranza. Del resto, qui dove si è tutti dottori, avvocati, cavalieri o onorevoli (di sostantivo e raramente di aggettivo) e mai signori, molto rimane da fare. Ma in Langa, abituati a non esagerare, si è sulla strada buona.
Un po’ il realismo, da molti visto come cinismo, che porta i langhetti a vedere la morte come fatto ineludibile e a non spremere lacrime ai funerali, ridere se il medico dice che il moribondo «ha tirato gli ultimi» riferendosi ai respiri e non a emissioni poco nobili; e induce papà a continuare a ricordare a mamma con una risata degna di Franti come parlasse di altri che, tanto, lui morirà prima di lei.
Tutto questo, cui si aggiunge la timidezza che ancora ti dà ritegno a indossare un capo d’abbigliamento nuovo e t’induce a non esibire titoli accademici né di ruolo (dopo anni ancora ti guardi attorno quando ti chiamano «direttore»). O a non sbandierare per anni (né a rivelare), adolescente, le scappate con papà in Gran Bretagna. Anche la festa dev’essere sobria; gli slanci di allegria, misurati e scevri, lo sballo e gli eccessi, antitetici al divertimento. Il buonumore non si compra. La felicità neppure. Li si conquista, giorno dopo giorno, con la pazienza e il lavoro della formica.
Anche per questo, dove sei nato non si gioca né si sperpera. Quanto a te, l’unico azzardo è stato il voler cambiare aziende, per curiosità e darti nuove sfide. E provare a indossare un paio d’ali guardando nuovi orizzonti.
Vedere esagerazioni o intemperanze ti fa sorridere, e pensi al tuo “temporaneo stato di successo”. Quando sei in prima linea, al lavoro come in guerra, in ogni momento puoi vincere o morire. Da sempre ti reputi ad interim sul lavoro. Ti accontenti. Ogni giorno in una posizione di vertice è un di più. Avverso al fatalismo, cerchi soluzioni, eviti la resa, e nel contempo prendi il buono in ogni persona e in tutte le situazioni, nella consapevolezza di aver adempiuto al dovere se scopri un collaboratore più bravo di me, in grado di prenderti il posto. Vedi il bicchiere mezzo pieno e non il vuoto.
Con Pequod sei stato capace di viaggi di lavoro in un giorno, come un Milano-Ravenna e ritorno la mattina, il pomeriggio a Vicenza e prima di sera il ritorno in ufficio a Milano. É diventata una necessità, l’auto stabile e sicura. Tuttavia «no, i cerchi in lega no, grazie» ho detto quando l’ho scelta. «Niente fronzoli. E poi un colore base, niente costi extra. Blu scuro o bianco? Il bianco per Bianca fa taxi. Blu allora. Non metallizzato. Modello base». Unica cosa necessaria, il vivavoce: per lavorare guidando, in sicurezza. Insomma, per lavorare lavorando. Quando l’hai ritirata hai avuto la tentazione di domandare «sta macchina c’ha tutto, freni, frecce, anche la marcia indietro? Bene, così siamo a posto …». Ricordi di aver sogghignato e lasciato perdere.
Fino all’anno scorso hai limitato le settimane di vacanza con Bianca e i bambini alle montagne piemontesi, di solito dopo un mese e mezzo di solitudine a Milano perché Bianca, assolte responsabilmente le incombenze di insegnante del triennio di scuola superiore, raggiungeva i tre bambini al mare dai suoceri. Quando si andava in vacanza, poi (di solito in montagna), per tenerti in contatto con l’azienda (perché eri indispensabile, maledetto), tenevi acceso il telefonino aziendale. E allora nei primi giorni continuavi a lavorare, pungolato dal pensiero delle tante cose lasciate a metà: il collegamento alla centrale, il piano commerciale, il grande appalto vinto e aggiudicato per una concessione trentennale, il commissioning della centrale, e questo e quello, la grana e il problema e l’opportunità imperdibile. Quando incominciavi a non pensarci più, era ora di tornare a Torino e al lavoro. Ogni anno così. Quest’anno, no. Dopo anni di responsabilità crescenti, giornate lavorative di dodici ore e soddisfazioni inversamente proporzionali alle preoccupazioni. Collegato, all’infinito reperibile e con la costante sensazione di avere più cose da fare rispetto a quelle già realizzate. Con entusiasmo. Trasporto. E fatica crescente. E quest’anno stacchi la spina. Hai deciso di viaggiare, lontano. Non essere rintracciabile per tre settimane, lontano migliaia di chilometri.
E quest’auto, che ti ha accompagnato in corse esagerate di lavoro per mezza giornata fino a Ravenna o Reggio Emilia, è uno strumento di quel volere: hai deciso di usarla per partire tutti insieme, e convinto Bianca in tal senso. Destinazione Gran Bretagna, sulla quale da vent’anni (ultima volta per lavoro, con l’azienda del cioccolato) non metti piede. Intendi gustarti l’avvicinarti alle isole britanniche, in auto ora come in treno da giovane: due lenti giorni di viaggio. Più divertente e più economico dell’aereo. Pensi alla canzone che danno in radio, «Je n’ai pas peur de la route/ Faudrait voir, faut qu’on y goûte/ Des méandres au creux des reins/ Et tout ira bien là/ Le vent nous portera». Ti piace soprattutto quel «Le vent nous portera».
A gennaio hai cercato due appartamenti in affitto per una settimana al mare e una a Londra. Hai cucito insieme le tappe, andata e ritorno, a quest’ultimo hai aggiunto tre giorni a Parigi. «On the road» quasi come da ragazzi. Il piacere del viaggiare prima della bellezza della meta. Come gabbiani nel vento, le ali ferme, trasportati dalle brezze marine. Il sole di casa tua e quello dei week-end sulla neve o sui campi di atletica con Agnese e Luca, non sono più sufficienti a controbilanciare lo scorrere, tutto uguale e grigio, dei giorni a Milano. Così una domenica dopo l’altra, al computer, hai messo insieme questo viaggio nel Devon settentrionale, 6-13 agosto, 620 sterline, un antico cottage di un certo W. J. Morgan di Stourbridge, West Midlands. E poi Londra, appartamento di un certo Mr Afriat, Beaumont Apartment, a Wandsworth nei pressi di Wimbledon. Perché capita, a quarantacinque anni, di voler tornare ragazzi. Ne sei convinto ma non l’hai detto a nessuno, perché ti pare un pensiero da ottantenne. A febbraio hai pensato all’attraversamento della Manica. Scartato il tunnel perché costoso, hai optato per il tuo vecchio traghetto. Hai cercato rotte, orari e prezzi. Roscoff-Plymouth sarebbe stato ottimale perché, dal porto inglese, sarebbero state poche decine di miglia per Appledore, ma lungo e caro; idem Cherbourg-Portsmouth e Le Havre-Portsmouth. Così hai scelto un Calais-Dover della P&O, capace di farti ripercorrere emozioni antiche, con il piacevole scotto di dover attraversare tutta l’Inghilterra del Sud, da Est a Ovest.
Da solo a Milano, di sera, hai organizzato il viaggio come facevi da ragazzo. Hai studiato le tappe intermedie per non affaticare e stufare troppo i bambini: Gevrey Chambertin, poi Calais, Canterbury, Appledore, e al ritorno dall’Inghilterra due giorni a Parigi, bed & breakfast Deux Colombes a un chilometro dalla stazione di Maisons-Laffitte nei pressi di Saint Germain-en-Laye da cui raggiungere Parigi con la RER, 16 minuti a Charles de Gaulle/Etoile, 82 euro a camera, due camere.
I mesi successivi sono volati fra scuola, Cresima di Luca a giugno, vacanze dei ragazzi ad Andora dai nonni e poi Nizza, dove al museo Chagall di Cimiez un gruppo di turiste giapponesi (o erano cinesi?) non smettevano di fotografare Leo e i suoi riccioli biondi, stupite quanto i francesi che anni prima sul sagrato della chiesa di Eze cosparsa di petali di rosa dopo un matrimonio, avevano descritto Leo, allora di dieci mesi, «une fleur parmi les fleurs», e quella signora che aveva definito i suoi capelli «comme le blé», riferendosi al colore, chiaro come il grano maturo.
E poi, quei maledetti attentati bastardi a metropolitana e autobus.
Prima tre convogli della metro colpiti da attentatori suicidi e, dopo un’ora, l’autobus vicino a Russell Square, non lontano dalla Pizza Express dove hai lavorato a diciott’anni nel ‘79, zone dove più volte hai camminato a passo lungo alla Pippo Baudo – come diceva un vecchio collega dell’azienda cartaria. Cinquantacinque morti inclusi gli attentatori, e settecento feriti. E il 21 luglio altre quattro esplosioni a Londra, di nuovo metropolitana e un autobus, senza vittime essendo esplosi i detonatori e non le cariche. Il 21 luglio, per te e Bianca, è una ricorrenza sacra. Inviolabile. Quelle esplosioni, un sacrilegio.
E ci s’è messo pure il tunnel del Frejus, chiuso due mesi per incendio e da pochi giorni riaperto; ora Bianca non si fida e domani per sconfinare fate il giro largo, per colli e passi montani. Mentre affronti un tornante pensi di essere stato bravo a convincere Bianca a non abbandonare il progetto di viaggio. «E in ogni caso» lei ti ha detto ieri al telefono «a Londra non prenderemo la metropolitana». Tu hai annuito volgendo gli occhi al cielo, rassicurandola. Aggiungendo però «il rischio è bello». Non so se sia stata rinfrancata, da quest’affermazione.
Riconosci il punto in cui hai evitato d’investire al tramonto un cerbiatto che, abbeveratosi al torrente, risaliva al monte. La testa ti gira. Non quanto prima del Natale 2001, quando per due settimane non hai potuto camminare senza barcollare come un ubriacone. Stress da lavoro, stile di vita da correggere. E altro, forse, ma inutile preoccuparsi ora, che finalmente viaggi e guardi al futuro. Per la prima volta dopo lustri quella volta sei stato a casa per malattia, deciso a rimetterti in sesto per puntare la torcia sul passato e rilanciare lo sguardo in avanti. E hai deciso di rimettere in ordine ricordi che temevi perduti.
Cadenzato dal tuo diesel e da Born to run a palla, ti sfila via l’asfalto bruno contornato di rocce e pini. Baby we were born to run. Dalla rotonda di Plan si scende per gli ultimi tre chilometri. Rifletti su come per quel voler esserci sempre e cavalcare l’online nel lavoro, ti sia sempre ostinato a preferire le vacanze a cavallo di Ferragosto, quando non ci sono interlocutori con cui dialogare e sviluppare nuove opportunità di business per la «tua» azienda, e comunque a non più di due ore di auto da essa, per poter intervenire in caso di urgenze. Ma quest’anno, basta.
E così ora, determinato a porre per qualche giorno una pietra sopra al lavoro, freni nell’ultimo tornante. Alla radio suonano Father and Son. Vorresti cantare ai figli, al piccolo Leo, a Luca, ad Agnese, fossero qui. Esplodono le luci sulla montagna, come la ruota del Santa Monica Pier sull’oceano o quelle di Las Vegas, visibili dal buio del deserto: a destra in basso, oltre il Chisone, il mastodontico cantiere illuminato a giorno del mostruoso trampolino olimpico scavato nella vecchia foresta di larici.
Spunta il cartello «Frazione Granges». Ne intuisci la scritta mentre fuggono le lettere. Davanti al Pragelmarket svolti a destra, ingrani la seconda, scendi per la stradina condominiale, parcheggi nell’unico spazio libero davanti al ceppo del larice abbattuto qualche anno fa, esci dall’auto, sali di corsa e baci Bianca e i bambini che si apprestavano ad andare a dormire. Bianca ti vede una luce negli occhi, capisce. Non ti chiede ragione dell’enorme ritardo, di cui solo ora ti rendi conto.
Tutti dormono. Non è una novità. Esci sul terrazzino. Chiudi la valvola della bombola del gas, osservi le stelle sopra il cantiere del trampolino di là dal torrente di cui indovini lo scrosciare, assapori profumi di resine e vegetazione umida che ti rincuorano. Rientri in casa, rinfrescato, e ti corichi accanto a Bianca, sul divano letto sgangherato, da te montato una notte d’estate in giacca e cravatta senza neppure avere cenato dopo il lavoro, quando loro erano al mare con i nonni. Scomodo, ma ci avete fatto il callo nelle troppe estati trascorse in quel paesino a 1.570 metri di altitudine.
*
«Sveglia!» bisbigli la mattina successiva ai ragazzi, passata mezz’ora con Bianca a caricare in auto le ultime cose, sfidando la rugiada e la frescura del mattino. Sette e dieci. Tardi. Sei calzato, vestito e adrenalinicamente sovreccitato. I bambini dormono, sui letti a castello nella penombra del corridoio adattato a camerina che da dodici anni ospita i loro sogni, in vacanza. I profumi di muschi, pini, erba, nontiscordardimé, astri e resine, entrano dalla porta finestra lasciata socchiusa.
«Cris, ma pure due cuscini?» grida in un sussurro Bianca dal parcheggio sotto, l’espressione fra il riso e la sorpresa mentre riassesta precisa i bagagli che avevo collocato alla meglio. Dal balcone la vedi affannarsi, sotto, a sistemare borse e valigie. «Ma Cris, questo scatolone? E le provviste?» domanda da basso, mettendoci tutto il fiato per far salire la voce, il braccio teso a sollevare il telo copribagaglio, lo sguardo alla scatola di cibarie nell’unico angolo libero da valigie e zaini. Soggiunge, non prima di aver risistemato per la terza volta ogni cosa, allargando le braccia: «Stiamo solo tre settimane! E poi, Leo e Luca hanno mal di pancia, per un po’ mangeremo tè, limone e biscotti di riso. Dovevamo partire? Mah! E gli attentati a Londra, e il tunnel del Frejus!».
«Nel tunnel non passiamo» bofonchi, gli occhi bassi.
«Cosa?»
«Niente tunnel» ripeti, a voce alta.
«Già, scusa. Comunque ieri ho fatto scorta di medicine. Ora ho risistemato i bagagli tre volte, e non ci sta uno spillo. Meno male che lenzuola e coperte ce le danno là, altrimenti avremmo dovuto noleggiare un rimorchio! Speriamo bene. Ma proprio dovevamo?».
Scendi da lei, frughi nel tuo zaino, estrai una cartellina da cui fai uscire due plichi uguali di documenti, e le dici mentre lei dà gli ultimi ritocchi al bagagliaio: «Bianca, ho organizzato e scritto tutto: itinerario, prenotazioni, biglietti, codici traghetti, indirizzi e telefoni di cottage, hotel e bed&breakfast. Prendi anche una delle due guide». Ripostane una nella tascona della portiera lato autista, per buon peso aggiungi, aprendo il cassettino sotto il sedile del guidatore: «E guarda, in questa cartellina trasparente ho una terza copia di tutto …». Sei disordinato nelle cose spicciole. Ma semel in anno sei capace di divenire ossessivo, su altro.
Bianca sbuffa, soppesa il suo plico, sistema la guida nello zainetto, accenna un sorriso, ti guarda. Insieme tornate su dai ragazzi. Lei, trafficando in cucina, riflette ad alta voce che «effettivamente siamo in cinque e bisogna essere organizzati, con tre bambini, di cui uno piccol … ahi!». Non riesce a scansare il «Topolino» di Luca lanciatole in testa di spigolo dal più piccolo, che la guarda torvo. Mai dire a un bambino che è piccolo, soprattutto se ha due fratelli più grandi, un maschio e una femmina, e magari vorrebbe saper giocare a calcio come il fratellone cui è capitato, a scuola, di giocare con Liliam Thuram che per offrire vantaggio si metteva in porta a guardare i bambini correre sfisionomati a nube attorno al pallone.
Sforzandoti di non ridere consegni a Bianca un’ennesima busta trasparente con gesto ampio del braccio: «Qui c’è la fotocopia dei documenti di identità e delle tessere sanitarie di tutti noi. Prendila e mettila nel tuo zaino. Io ho una copia nel mio, ma non si sa mai. Nella tasca fissata alla cintura ho gli originali dei documenti dei bambini, oltre ai miei. Tu tieniti i tuoi originali». Sorridi. Forse hai esagerato. Come il Furio del film in cui la cui moglie esasperata si chiude nel cesso sgangherato di un autogrill e esclama disperata, con accento piemontese, «non ne posso proprio più!». A te e a Bianca non manca neppure l’accento piemontese, voi che il dialetto non l’avete mai parlato, neppure in casa da piccoli. Passi in rassegna tutti. Agnese aiuta Leo a infilare un calzino, e Luca richiude il suo zainetto non prima di avervi collocato diligentemente il «Topolino» nuovo, ristirato diligentemente dopo il volo sulla testa di Bianca, e due biro con blocco per appunti.
Scansioni ogni angolo della casa. Consegni a Luca e Agnese copia dei rispettivi documenti di identità, e a Leo una bustina in plastica da cui spuntano la copia della sua carta bianca d’identità, un biglietto da visita della tua azienda sul cui retro hai scritto a chiare lettere in inglese: «My name’s Leone (Leoncino) Bonforte, 4 years 1/2, via Gallarate 6, Milano, Italy, tel. numbers +39………(home) +39………(mobile) and this is my dad’s business card». La bustina pende da un cordoncino lungo in modo da poter essere appesa al collo oppure a bandoliera. Sei fiero di te. Al cordoncino è legato un campanellino, in modo che camminando Leo possa emettere suoni e non perdersi. Ti guardano tutti attoniti.
«Ehm… Andiamo in due capitali europee e Leo è piccolino» ti giustifichi agli occhi esterrefatti di Bianca. Leo guarda perplesso la busta, osserva il fratello e la sorella riporre nei loro zaini i documenti consegnati dal papà, annusa il diverso trattamento e lo stupore per il campanellino.
«Non sono una mucca!» protesta indicando il campanello.
«Ma no, Leo …»
«E neppure una pecora!» rincara la dose, forte delle settimane in montagna.
Prende in mano la busta, la soppesa, la esamina e, quasi piangendo, la restituisce.
«No, pa, no, pa, non voglio la busta, no» piagnucola Leo. Agita i ricci chiari e scuote il capo a diniego. Non tutte le grandi trovate hanno successo. Anziché appendergli al collo la busta con cordoncino e campanello, leghi il tutto a uno spallaccio del suo minuscolo zaino azzurro. Meglio. Il suo volto si illumina in un sorriso.
Consegni a Luca uno dei due walkie-talkie che gli ha regalato uno zio a Natale, corredato di batteria caricata a tappo la sera prima, da usare in caso di bisogno. O per risparmiare sulle telefonate fra noi, ci dovessimo separare in due gruppetti. Da tenere nello zainetto, cosa che Luca fa, scrupoloso ma non entusiasta. L’altro apparecchio l’hai già riposto, bello carico, nella tasca esterna del mio zaino.
Così affardellati i bambini scendono all’auto, molli per il sonno di una notte troppo breve. L’aria del mattino li risveglia. Bianca si chiude il giubbetto impermeabile, tu indossi sulla polo verde la maglia blu, più grande di due taglie; e procedi alla “chiusura casa” cui vi siete abituati in tanti anni di trasferimenti. Pare la check-list di un pilota, come hai fatto ieri pomeriggio uscendo, solo, dalla casa di Milano. Chiuso il gas? Sì. L’acqua? Ok. Contatore elettrico? Certo. Tende chiuse? Anche. Niente in disordine? No … a parte i giochi strabordanti dal bauletto blu.
L’astronave può decollare. Chiudi a chiave, e anche tu e Bianca salite sull’auto dove vi aspettano i tre ragazzi, per l’occasione non litigiosi. I due grandi contano i soldini messi da parte per comprarsi una maglietta dell’Hard Rock Cafe.
Partite, in prima, su per la stradina ripida del condominio Riviere; poi salite a Sestriere. Alla stazione di servizio di fronte ai campi da sci ordini una rabboccata al serbatoio e un controllo alle gomme. Al bar a Cesana lungo il torrente prendete un caffè (niente per i bambini), e ripartite. Invece di proseguire per Bardonecchia e il traforo del Frejus, da poco riaperto dopo l’incendio di giugno, passate per il colle del Monginevro.
Pensi che l’indomani la Pequod viaggerà dove sono morti i poeti giovani: un’intera generazione spazzata via dalla guerra di trincea. Li ricordi come una litania: Edward Thomas, Julian Grenfell, Charles Hamilton Sorley, John Mc Rae, Isaac Rosenberg, Alan Seeger, Arthur Graeme West, Wilfred Owen (quest’ultimo ucciso il 4 novembre 1918 sul canale di Sambre-Oise una settimana prima del cessate il fuoco). Pensi ai versi non scritti, incisi nel fango da ragazzi piegati in due come mendicanti sotto il peso dello zaino, un colpo di tosse via l’altro come streghe imprecanti nel pantano. E i sopravvissuti: Siegfried Sassoon, che scrisse di un ragazzo troppo giovane per morire; Robert Graves, ferito nella battaglia della Somme e dato per disperso, guarito grazie alla poesia. Ivor Gurney, gassato a Passchendaele e internato in manicomio. Vorresti recitare i versi di Owen dal Dulce et Decorum Est che cantano il ragazzo morente asfissiato dal gas, soffocato dal sangue e dalla menzogna del dolce morire per la patria.
Tutto questo, vorresti dire a Bianca. Non con questo dettaglio, ché ti darebbe del pazzo. Sempre meglio che cercare i numeri simmetrici nelle targhe della auto davanti, per i quali hai mania di sommare e sottrarre le cifre.
Un po’ ti ascolterebbe, Bianca, e mi risponderebbe persino, per poi dedicarsi alle sue mappe e alla guida Lonely Planet.
Ma tra pochi giorni potrai mostrare il castello, e Bianca prenderà la Lonely Planet per leggere che fu costruito dal conte Richard di Cornovaglia, dove secondo leggenda nacque (o fu portato dalle onde del mare) Re Artù, che vi abitò con la moglie Ginevra e i Cavalieri della Tavola Rotonda. Chissà cosa diranno, i bambini, quando Bianca leggerà loro che Merlino sarebbe vissuto in una caverna sotto gli strapiombi del castello, e andrete a Dozmary Pool, nelle cui acque stagnanti fu gettata Excalibur, la spada forgiata ad Avalon, dopo essere stata estratta dalla roccia?
Di certo i bambini guarderanno Bianca e l’ascolteranno, rapiti dalla storia. Sul punto di Excalibur Bea farà valere la sua primogenitura esibendo, forse, una smorfia di scafato scetticismo. «Sì, l’hanno preso da un cartone della Disney!» sbufferà lei, insinuando in Chicco il dubbio. Leo, invece, continuerà guardare Bianca, la sua mamma, come una fata delle brughiere. Incantato dalla storia. Bea e Chicco si guarderanno. Si scambieranno un’occhiata a dirsi che non la bevono. Tutta. Un po’ sì, però. Buon viaggio, ancora.
Teresio Asola