“Ogni corpo/ è un essere vivente./ Ogni poesia/ è femmina!”: potrebbero essere questi lapidari versi di Hamda Khamis, poetessa del Bahrain, classe 1946, il biglietto da visita dell’antologia curata da Valentina Colombo, già traduttrice del Premio Nobel Najib Mahfuz, così come di altri autori della letteratura araba, e pubblicata nel 2007 da Mondadori. Ma non sarebbero gli unici, dal momento che tra le pagine di questa corposa raccolta, che purtroppo non ha avuto ristampe e risulta da tempo fuori catalogo, esiste per davvero solo l’imbarazzo della scelta.
Sono tante, infatti, le voci poetiche femminili di cui ci si mette in ascolto prendendo in mano questo libro: ventinove donne in rappresentanza del mondo arabo contemporaneo che, nel bene e nel male, ha molto da raccontare. Dall’Algeria alla Siria, dal Libano al Marocco, dall’Egitto allo Yemen, senza tralasciare la Palestina o gli stati del Golfo. Un mosaico assai ricco e variegato al suo interno che, parola dopo parola, verso dopo verso, si ricompone in modo particolarmente significativo dinnanzi al lettore occidentale, per lo più ancora prigioniero di stereotipi che impongono in primis la consueta e ormai abusata immagine di donne velate e silenti.
Eppure, nell’ambito della cultura araba, come ben sottolinea la curatrice del volume, l’altra metà del cielo ha sempre composto poesia, genere letterario per eccellenza fin dall’epoca preislamica, trovandovi la giusta dimensione per la propria arte; non è dunque solo questa nostra epoca che ha visto la donna araba, musulmana e cristiana, impugnare la penna. Per di più, è anche merito di una poetessa irachena Nazik al-Mala’ika (1923-2007), figlia di poetessa, se intorno alla metà del Novecento i rigidi schemi ritmici e metrici di quella poesia sono stati rivoluzionati a favore dell’utilizzo del verso libero, con grande scandalo dei puristi della letteratura araba; e alla libertà del verso è andato subito a unirsi l’impegno a favore dell’emancipazione. Grandissima figura di intellettuale, quella di Nazik al-Mala’ika, tra i cui componimenti qui raccolti spicca senz’altro la sua Orazione funebre per una donna insignificante (Scene di vicolo a Baghdad), una denuncia impietosa sulla condizione femminile nella capitale irachena:
“Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbra/ le porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte/ nessuna tenda alle finestre stillante dolore/ si è levata per seguire il suo feretro sino a che non scompaia dalla vista/ […] La notizia si è dissolta nei vicoli senza che il suo eco si diffondesse/ e si è rifugiata nell’oblio di alcune fosse/ la luna ha pianto questa tragedia. La notte non se ne è curata e si è trasformata in giorno/ […] in un oblio pressoché totale.”
L’autrice altrove si domanda “Perché abbiamo pura delle parole?”, ponendo l’accento sull’importanza di esprimersi invece di restare “assuefatti al silenzio”, nonostante l’arabo, come lei stessa affermò in uno dei suoi saggi, sia “lingua di una nazione che non stima le donne”. Il fatto stesso di essersi impossessate di una lingua considerata sacra in termini coranici, manipolandola per avvantaggiarsene e dissacrare in un certo qual modo la realtà patriarcale attraverso il mezzo poetico, equivale ad aver infranto un tabù. Del resto, ovunque, la scrittura femminile è stata spesso vista con sospetto, percepita come un atto di ribellione, sostanzialmente “sovversiva” dell’ordine costituito, foriera di cambiamenti sociali e di poco gradita emancipazione sessuale.
E quest’ultima, non s caso, è tutt’altro che marginale nei versi di un altro nome noto del panorama culturale arabo d’oggi. Nata a Beirut nel 1970, Joumana Haddad, poetessa, giornalista, traduttrice e attivista, ci conduce così ai giorni nostri; Non ho peccato abbastanza è il titolo di una sua pubblicazione dei primi anni Duemila, dalla quale è stato preso il significativo titolo assegnato a questa antologia. Da un poemetto sempre di quel periodo, Il ritorno di Lilith, riemerge con prepotenza l’impudico personaggio risalente addirittura alla tradizione mesopotamica e presente anche nella Bibbia:
“Io sono Lilith, la dea delle due notti che ritorna dall’esilio./ […] Io, Lilith, l’angelo scostumato. Prima giumenta di Adamo e corruttrice di Satana. L’immaginario del sesso represso e il suo grido più forte.[…]”
In Sono una donna la libertà femminile, condizione naturale svilita dalle imposizioni della società, quel “cibo squisito” secondo la definizione della sua conterranea Nada al-Hajj, viene ribadita senza mezzi termini:
“[…] Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà/ fosse una loro concessione/ e ringraziassi e obbedissi./ Ma io sono libera prima e dopo di loro, con loro e senza di loro/ […] Sono una donna./ Credono che la mia libertà sia loro proprietà/ e io glielo lascio credere/ e avvengo.”
Una scrittura dai toni volutamente provocatori e disinibiti, quella della Haddad (di cui esiste già diverso materiale tradotto in italiano), accanto alla quale non sfigura di certo l’opera di un’altra sua collega molto famosa e apprezzata in Occidente: Maram al-Masri, poetessa siriana da lungo tempo residente in Francia.
“Non era/ il tuo dolore/ altro che puntura di spillo./ Ma mentre ruoto su me stessa/ il mio dolore diventerà/ rosso./ Come una ciliegia matura schiacciata/ su una piastrella/ bianca,/ scorgo/ un sorriso liberatorio/ all’estremità della tua bocca.”
Ciliegia rossa su piastrelle bianche (2005), da cui è tratto questo componimento, si rivela una vera e propria miniera di versi più che eloquenti che, attraverso un linguaggio diretto e carico di sensualità, mettono a nudo l’anima femminile nella sua intimità più profonda.
Purtroppo, si fa un grave torto non citando tutte le altre “peccaminose” penne i cui testi animano questa raccolta, ma prenderne in esame le rispettive opere antologizzate risulterebbe onestamente impossibile. La saudiana Fawziyya Abu Khalid, l’egiziana Iman Mersal, l’emiratina Zhabiya Khamis, la marocchina Wafaa Lamrani, giusto per menzionare ancora pochi altri nomi, hanno combattuto e combattono tuttora con la forza delle loro parole, operando spesso in contesti territoriali avversi e talvolta rischiando addirittura il carcere, con tutto ciò che esso può comportare in uno stato arabo, o la messa al bando dei propri scritti. Questa sorta di dīwāna più voci rende un doveroso omaggio a tutte loro, la cui scrittura è indubbiamente un atto di grande coraggio. Una pubblicazione preziosa e affascinante che apre la mente e allarga gli orizzonti culturali, contribuendo a gettare un guanto di sfida a qualunque ipocrita e bigotto perbenismo, al di là di ogni possibile frontiera.
Laura Vargiu
(AA. VV., Non ho peccato abbastanza, a cura di Valentina Colombo, Mondadori, 2007, pagine XXXVIII-286, € 9,00)