“No, Spagnolo. Sono di madre lingua. Mia mamma è madrilena”.
“Perfetto, sono contenta per i miei allievi, che vieni a insegnare da noi. Io abito qui, in quel palazzo con le colonne”.
“Caspita, che bello! E’ un palazzo aristocratico”.
Si, ma sono una semplice affittuaria ed ero sul punto di andare ad abitare altrove”.
“Non ti trovavi bene?”
“No, anzi, ma …”
“Se non ti va di parlarne…”
“Figurati , posso parlarne. Si è trattato di questo: data la vicinanza con la scuola, mi facevo ‘sti quattro passi a piedi, ma, a un certo punto, era diventato un tormento per me. Vicino alla scuola, al primo piano, c’era sempre seduto al balcone un uomo in pigiama. Era stato un famoso latinista, lo avevo avuto come insegnante al liceo e tutti noi studenti lo consideravamo un genio e lo adoravamo. Poi lui ebbe la cattedra all’università La Sapienza di Roma e per una decina d’anni non lo vedemmo più. Le finestre della sua casa erano sempre sbarrate, ma un giorno lo vidi, era tornato in quella casa. Lo salutai e gli dissi: “ Sa, professore, insegno Italiano e Storia proprio qui alla Pascoli. Io sono stata sua allieva”.
“Vieni, sali senza mutande, ti insegnerò l’essenziale!” disse, gridando. E queste furono le parole più pulite, perché quelle che mi rivolgeva nei giorni successivi erano di una indicibile volgarità e si riferivano a tutto quello che avrebbe fatto col mio corpo. Oscenità irripetibili. Naturalmente andavo dritto a testa bassa senza rispondere, ma mi sentivo fremere dalla rabbia, anche perché c’era sempre qualcuno che rideva spudoratamente. “ E dagliela ‘sta soddisfazione!” disse l’altro giorno un ragazzo, passando in bicicletta.
Il grande latinista era impazzito, Ieri è arrivata un’autoambulanza e l’hanno portato via. Oggi nei telegiornali si è parlato di un “lieve malore”…. Boh.”
“Altro che lieve malore. Ti ha fatto tanto male.”
“ Oggi finalmente mi sono sentita liberata da un peso, da quel pensiero che ogni mattina mi opprimeva, il pensiero di essere oltraggiata.”
“Ma tu, per raggiungere la scuola non potevi fare un altro percorso?”
“Non c’è un altro percorso da dove abito”.
“Ma, per tua fortuna, è finita. Senti ma … Questo professore era stato un grande?”
“Si, grandissimo. Ha scritto decine di libri. I suoi testi sulla poesia latina da Orazio, a Ovidio, a Catullo sono fondamentali all’università. Ma poi la cosa più strana è che prima della malattia, era un gran signore, un gentiluomo di grande eleganza nei modi, nell’abbigliamento; poi, era buono, con noi lo fu moltissimo. Mi hanno riferito che agli esami all’università faceva il possibile per non bocciare. Era gentilissimo con tutti, cordiale con gli assistenti, che gratificava spesso pubblicamente. E’ chiaro, era impazzito, poverino, io soffrivo per causa sua, ma non ho mai coltivato rancore.”
“Ma a te, quello che diceva il ragazzo in bicicletta, di dargli una soddisfazione, non ti è venuto in mente mai? Non mi fraintendere: nel senso di parlargli , di aiutarlo, di trattarlo con umanità. Lui, in fondo, ti desiderava, del resto sei molto bella. Chissà che la tua gentilezza, la tua grazia non avrebbero prodotto un, come dire, miglioramento…”
“No, non era possibile. Tu non puoi immaginare che genere di richieste faceva. Se fosse rimasto sano, avrei accettato e corrisposto al suo amore, ne sarei stata onorata, ma il linguaggio di quando era impazzito non era minimamente paragonabile a una idea di eros naturale. Erano le parole della pornografia più estrema e volgare. No, non era possibile, con tutta la buona volontà. Credimi!.”
“Certo che ti credo, e mi fa piacere che il malessere che hai dovuto subire non abbia generato odio. Tutt’altro. Sei una donna di alta intelligenza e sensibilità, ti conosco da pochi minuti ma sono sicura di non sbagliarmi. Ho capito che il tuo attuale sentimento è solo di pietas, come avrebbe detto lui quando era un elegante latinista.”
“ Sei molto gentile, ti ringrazio.”
Caro lettore in questo racconto quello che incombe maledettamente è la sorte, l’ironia della sorte. In una mente raffinata, allenata alla poesia, alla grazia, alla bellezza si insinua incredibilmente un male terribile. Un male che esprime se stesso con idiomi volgari, sconci, lontani mille miglia dall’alta cultura che aveva alimentato per anni e anni quella mente elevata.
Come è possibile che la verità possa essere deformata in quel modo ridicolo dai telegiornali? Un lieve malore…. A chi giova? Perché si usano queste forme riduttive, quando invece si è trattato di una malattia devastante, che, tra l’altro, ha ferito la femminilità di una giovane donna?
Ma, caro lettore, altre riflessioni bisognerà fare: come nascono e si sviluppano questi mali? Quali discipline possono far luce: la Psicoanalisi, tutte le altre scuole della Psicologia del profondo, oppure: la Psichiatria, la Neurologia, le varie analisi sulle dinamiche dei neuroni e delle sinapsi? O, forse, nessuno approccio clinico? Aspettare il corso naturale del male, che, in taluni casi rari, regredisce?
Uno sforzo di bontà, volontà e partecipazione da parte dell’oggetto del desiderio, avrebbe potuto, nel nostro caso, alleviare l’asprezza della malattia?
A che punto è arrivata la ricerca scientifica sulle malattie mentali e come avanza la psicofarmacologia?
Sono stati fatti passi da gigante, nessuno lo nega, ma la comprensione della mente umana è ancora agli albori. Non ci resta che considerare l’aspetto immediatamente prossimo: la pena, il dolore, la nozione drammatica della frantumazione delle forme del pensiero, dei rapporti estetici e morali, lo sradicamento, infine, di uno straordinario patrimonio culturale. Eppure c’è qualcuno che ostinatamente, forse per ostentare una sorta di cortesia di facciata, dice: “Un lieve malore”.
Attilio del Giudice
(dal ciclo di racconti Il coinvolgimento del lettore /4)
Se è vero che la cultura è quella cosa che rende sostenibile una società complessa, quanto può essere sufficiente a rendere sostenibile la solitudine e la rinuncia alla relazione interpersonale? Al netto di qualche irriverenza che ogni tanto riservo all’autore, in questa ” zona di disagio” la sostanza mi lascia talvolta disarmato, ma Attilio mi offre sempre il piacere di uno stile narrativo che compensa e mi accompagna fino al termine del racconto
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Attilio del Giudice in questo ciclo coinvolge il lettore, lo seduce e sul finale lo invita a una riflessione. L’autore stesso non si sottrae all’approfondimento, stimolando e indagando i comportamenti e la decadenza dei suoi personaggi e delle loro azioni.
In questo racconto si delinea benissimo l’intenzione di sondare l’animo umano, per portare a galla i limiti e le profondità imperscrutabili.
L’intenzione, affascinante e allo stesso tempo inquietante, ci rende veri protagonisti di queste letture, rapide e conturbanti.
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Anche in questo racconto, l’autore Attilio del Giudice, ancora prima di interromperlo per porre al lettore, e forse anche a se stesso, in calce, gli interrogativi utili a riflettere sulla malattia mentale, si chiede e ci chiede perchè i tg abbiano addotto come motivazione del ricovero in ospedale del protagonista “un lieve malore”, tacendo la verità. Questa ipocrisia e falsità trova giustificazione nel fatto che ancora oggi ci si vergogna della malattia mentale, quasi fosse un tabù, come lo era fino a pochi anni fa il cancro, che veniva chiamato male incurabile, pronunciandolo a fior di labbra e con gli occhi bassi. Forse l’uomo in fondo si vergogna di non sapere fare nulla di fronte a mali di cui poco si conosce e, nonostante le ricerche scientifiche e farmacologiche, poco si riesce a fare, soprattutto se si è sottovalutata la situazione precaria del soggetto e le motivazioni che lo stanno portando ad uscire fuori di senno. A differenza del cancro, la malattia mentale, a mio modestissimo avviso, ha profonde radici nel funzionamento tortuoso e complesso della psiche, nelle abilità o disabilità emotive, nelle sovrastrutture acquisite durante il percorso della propria vita, di cui prima o poi ci si deve spogliare per ritrovare la propria essenza, cosa che comporta l’attraversamento di un tunnel buio, dove ci si ritrova spessissimo da soli, per l’incapacità altrui di comprendere il travaglio interiore. Il sentirsi incompresi e il vedere sminuiti dagli altri i problemi interiori può essere una delle cause che scatenano un senso negativo di disvalore del proprio essere, della propria volontà di capire se stesso, gli altri, il mondo. E, forse, la malattia mentale diventa la fuga da una realtà inaccettabile. dove non si riesce più a vivere come prima. A conclusione del mio commento, vorrei dire grazie ad Attilio del Giudice per avere posto il lettore di fronte ad uno dei più dolorosi e terribili problemi che affligge questa nostra umanità, mentre internet, la più avanzata tecnologia e le scoperte spaziali ci inducono ad autocelebrarci come esseri potenti, progrediti e dominatori del mondo.
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