La vegetariana (Adelphi, 2007) della coreana Han Kang, librovincitore del Booker Prize, mi ha incuriosita fin dal titolo, essendo io stessa vegetariana. Ho trovato qui una freschezza di scrittura e una capacità di affabulazione, oltre a elementi di critica sociale che, a mio avviso, rendono questo testo interessante. Chi va in cerca di esotismo probabilmente rimarrà deluso di fronte alle allucinazioni e alla progressione di angosce e visioni oniriche che, in un’escalation dal ritmo travolgente, catapultano il lettore dall’ordinarietà di una vita banale al mistero di una rottura sconvolgente. Tutto ciò attraverso una prosa essenziale, centrata sull’enormità della vicenda narrata. La struttura triadica in cui il punto di vista si sposta da un personaggio all’altro variando addirittura l’io narrante (interno solo nella prima parte), sembra quasi voler rafforzare l’idea che il nodo centrale de La vegetariana sia qualcosa d’infranto, irrimediabilmente irrisolto che ha a che fare con l’identità.
A prendere per primo la parola è il signor Cheong, marito della donna descritta come «la più ordinaria del mondo», né brutta né bella, dall’apparenza insignificante e che, intrappolata nelle trame di un matrimonio opaco trascinato senza ardori tra tegamini e camicie sgualcite, conduce un’esistenza scialba. Una donna che però ama la lettura, minuscolo seme dell’eversione contro l’ordine costituito. Il marito, a sua volta anonimo impiegato di una grande azienda, simbolo di un mondo materiale e superficiale, intesse una sorta di apologia della mediocrità. Poi succede qualcosa, Yeong-hye fa un sogno: «Una foresta buia. Non un’anima viva. Le foglie aguzze sugli alberi, i miei piedi tutti graffiati. […] Una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Cerco di passare oltre ma la carne… non c’è fine alla carne, e nessuna via d’uscita. Ho del sangue in bocca, i vestiti intrisi di sangue appiccicati alla pelle».
E così incomincia la silenziosa ma inesorabile metamorfosi nella scandalosa “vegetariana”. In contrasto con le premesse, sconcerta l’inaspettata rivoluzione di un personaggio sfuggente, di cui non si capiscono le reali motivazioni, ma che, a partire da una minima incrinatura, tramite gesti via via più folli, destabilizza la routine quotidiana fino alla dissoluzione totale. Attorno a una scelta insanabile, non mossa da ragioni etiche o di salute e che intacca pericolosamente le credenze di un intero universo e il modo in cui la realtà viene normalmente esperita, si consuma il disperato sforzo di costruzione (e decostruzione) di un’identità, fino ad allora negata. A chi non è artefice nemmeno della propria vita e non possiede i mezzi per imporsi, non rimane che la rivolta della coscienza del sé, l’unica possibile contro l’utilitarismo della società tardocapitalistica fissata in ruoli soffocanti (di genere, lavorativi, familiari), società fatta di rapporti di convenienza, incomunicabilità, solitudine e intrisa della violenza emblematicamente raffigurata dai pezzi di carne maciullata. Lo scotto da pagare in cambio della riscossa è l’alienazione assoluta, punizione di inaudita ferocia. Se proprio si volesse cogliere l’origine del male di Yeong-hye, bisognerebbe prestare attenzione alla dimensione inconscia, lo spazio irrazionale reso dal corsivo, momento che tramite la convergenza tra vissuto e livello onirico soppianta completamente il sonno configurando una delle rinunce che, assieme a quella della carne e del sesso considerati allo stesso modo ributtanti, segnano le tappe fondamentali del percorso di trasformazione della protagonista.
Il corpo del marito – apoteosi della trivialità del potere e simbolo di una cultura meccanicistica che ha in spregio i valori più puri dell’essere umano, ovvero quelli spirituali – con la sua pancia grossa e il pene piccolo cerca di fagocitare completamente la moglie, fino a violentarla nell’estremo tentativo d’impedirne l’affrancamento. L’impossibilità di relazionarsi in maniera soddisfacente è evidente durante l’incursione della reietta nella cena di lavoro in cui i commensali, colleghi e superiori di un signor Cheong in preda al disprezzo e alla vergogna, inanellano una serie di sciocchezze al fine di stigmatizzare la stolta (a loro avviso) risoluzione alimentare della donna, incurante delle loro opinioni e colpevole di intollerabili sfrontatezze quale quella di non indossare il reggiseno. Gli spettatori della spirale autodistruttiva della vegetariana, sentendosi in qualche modo minacciati in prima persona, cercano di opporsi agli eventi, con la coercizione o l’inganno, fallendo miseramente. Uno dei vocaboli più ricorrenti del libro è “vergogna”, talvolta accompagnato da “empatia”, capacità che manca del tutto, per esempio, al padre che in un’altra surreale cena costringe la figlia a mangiare un pezzo di carne, «per il suo bene», e solo per questo ci sarebbe motivo per diffidare della bontà delle intenzioni: volontà in lotta contro altra volontà. D’altronde, l’uomo, fiero di avere ucciso sette vietcong nella guerra in Vietnam e di avere frustato la figlia fino ai all’età di diciott’anni, incarna perfettamente il volto spietato di una società ossessionata dalle aspettative e vittima di un conformismo ossequioso verso apparenze e regole stringenti, comuni vizi capitali, né orientali né occidentali, che affliggono il globo industrializzato. Mi pare questo il messaggio più forte del romanzo, non resoconto di un fatto personale, circoscritto, bensì rappresentazione sferzante dell’universale condizione di debolezza dell’essere umano, del diverso soprattutto, messo alla berlina a causa della sua alterità dai propri simili, specie da chi dice di volere il suo bene.
Un corpo sociale monstre con l’unico obiettivo di mantenersi in vita e proliferare, difeso strenuamente dai suoi componenti, esseri indistinti attivissimi nell’espulsione di chiunque mini le basi intorno alle quali si compattano. La fiera opposizione operata da Yeong-hye contro la scala di disvalori universalmente accettata evoca forti rimandi simbolici. Per me, lettrice di cultura occidentale, nella parabola della vittima sacrificale echeggiano le storie bibliche di virtù sacrificio e corpo, quella dei fratelli Maccabei per esempio, o ancora il racconto evangelico della venuta messianica di Gesù Cristo, egli stesso agnello sacrificale e cibo per l’umanità che lo ha immolato. In effetti, Yeong-hye, sottoposta a volontario martirio e per questo perseguitata, possiede i tratti della mistica. Tuttavia, la sua venuta non assume alcuna funzione salvifica.
Alla svalutazione della dimensione corporea e alla conseguente negazione della sensualità condotte nella prima sezione del libro, si contrappone l’esaltazione dei sensi operata dal cognato artista attratto da Yeong-hye per via della cosiddetta macchia mongolica, ovvero la colorazione bluastra in zona lombare presente nei bambini e di cui la donna mantiene ancora un vago ricordo. In un improvviso capovolgimento, grazie a quel minuscolo fiore dai petali azzurri disegnato sulla natica, Yeong-hye diviene oggetto del desiderio, mentre la sorella (a lei preferita dal signor Cheong, ormai ex marito) rimane la donna in ombra dalla «bontà opprimente».
L’atto di dipingere sui corpi assume la sacralità del rito iniziatico che sancisce il passaggio da uno stato dell’essere a un altro. Eppure, una volta scoperta, quella macchia si rivela più vegetale che sensuale: la trasformazione è irreversibile. Finalmente spogliata dagli odiati vestiti e ricoperta di fiori, Yeong-hye non è più un essere umano. L’artista comprende il suo errore: non c’è desiderio in quel corpo, non vita, si tratta piuttosto di un essere mutante con la capacità della fotosintesi, metà vegetale e metà animale, di sicuro non più persona. Il desiderio a cui inizialmente Yeong-hye acconsente diviene la prova lampante che il suo processo evolutivo non può dirsi del tutto compiuto: smettere di mangiare carne non basta ad esorcizzare quell’impulso bestiale che è all’interno delle sue viscere e che si manifesta in sogno. Bisogna fare di più. Nessuno può arrestare questo processo, anzi, chiunque cerchi di penetrare nel mistero della vegetariana rimane sconfitto, schiacciato, messo di fronte allo sbigottimento derivante dalla visione dei propri demoni. L’ultima vittima è In-hye, personaggio che ci conduce nel suo mondo interiore, nell’intimità dei sentimenti, riuscendo forse a mettere un po’ più a fuoco quella creatura enigmatica che è sua sorella Yeong-hye.
La parte finale del libro “Fiamme verdi” si apre con una donna da sola «che ignora quegli sguardi indagatori, quel misto di sospetto, cautela, ripugnanza e curiosità». Ecco che lo stesso destino di Yeong-hye si propaga come una pestilenza investendo le vite altrui, del cognato dapprima, della sorella poi. In-hye vive il dissidio tra la volontà di soccorrere la sorella e l’incapacità di perdonarle l’irresponsabile libertà di essersi emancipata dalle convenzioni sociali. Ma, che la si approvi o meno, la metamorfosi è quasi completa: «sul mio corpo crescono le foglie, e dalle mani mi spuntano le radici… Affondo nella terra. Di più, sempre di più, all’infinito». Quella che viene diagnosticata come schizofrenia è in realtà liberazione; non malattia, al contrario, guarigione. È proprio la folle Yeong-hye a dire alla sorella «Tutti gli alberi del mondo sono come fratelli e sorelle», offrendo un’importante chiave di lettura della sua incomprensibile resa. Presto spariscono pensieri e parole. A Yeong-hye non serve altro nutrimento se non il sole, proprio come a una pianta. È la fine ciò che sta cercando disperatamente? Smettere di resistere all’impulso di dismettere l’abito incomodo della vita? Yeong-hye ha gli occhi chiusi. Dorme? Oppure è la morte, familiare e dimessa? Forse. Solo un filo che si spezza, dolore in dissolvenza. L’anima un serpente che cambia pelle e diventa qualcos’altro: un sogno, un soffio, un fiore profumatissimo.
Giusi Sciortino
L’ha ripubblicato su Zurumpat!.
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