Fra PPP e Sciascia, poi il nulla

Caravaggio, alla fine, un uomo, lo uccise. Accadde nell’ultima delle sue risse. Una furiosa lite di strada a colpi di coltello, che secondo alcuni scienziati francesi avrebbe provocato la setticemia a causa di una ferita. E questo chiuderebbe la secolare questio sulla morte di Michelangelo Merisi, ché è di lui che sto parlando. Una morte che per Caravaggio non poteva avvenire con una “serenità” da R.I.P. Sarebbe stata incoerente con la sua vita, la sua storia. Ovviamente, era giovane: 38 anni. Lo trovarono che rantolava rotolandosi in preda a una febbre mortale nella sabbia del litorale di Feniglia. Un posto di degrado, in quel luglio del 1610. Chiuse così, la sua vita, l’anima inquieta di Caravaggio (o Milano? Diatriba irrisolta fra il paese bergamasco e la capitale meneghina). Del resto, dopo Il martirio di Sant’Orsola, cosa avrebbe mai potuto dipingere per rappresentare la sua fine? Dopo Salò o Le 120 giornate di Sodoma (peraltro uscito nelle sale dopo la morte di Pasolini), come avrebbe mai potuto rappresentare il capolinea di una vita assolutamente diversa Pier Paolo Pasolini, che in quel film s’immedesima con la disperazione di una pianista che si suicida lanciandosi da un balcone perché non può – non può proprio! – tollerare l’ormai intollerabile?

Due vite, quelle di Caravaggio e PPP parallelamente segnate dalla mal’aria dell’incontemporaneità, ché disagevole era stato – per entrambi – vivere nel tempo degli “altri”. Per 38 anni uno, 53, l’altro, la vita era stata un susseguirsi di approcci con un “assoluto” idealizzato, raggiunto, agguantato con anima e carne, ma sempre – sempre, implacabilmente! – impossibile da trasmettere agli altri in una gorgiana consapevolezza sofistica, se non tradendolo, quel senso d’assoluto. A somiglianza di quel simpaticone di Schopenhauer, non avrebbero mai potuto condividere con “altri” quel loro sentire angoscioso e angosciante: quel bisogno che fermentava il loro cuore, facendolo brillare come firmamento a loro – unico – uso e consumo. Usato e consumato non allo stremo ma nella normalità del loro sentire. E in questo loro disagio del cuore, la ragione impazziva, serrata com’era nella gabbia del tempo assegnato, e non c’era panacea pascaliana a rimedio. Un tempo “assegnato” da chi? Mah. Per entrambi – cattolici impraticanti ed entrambi inciampati nell’accusa di blasfemia – un divino irraggiungibile seppur esistente (di stampo kantiano?) e – soprattutto – vigilante.

Anche Pasolini come Caravaggio morì su un lido a somiglianza di ultima spiaggia di vita: quello di Ostia. All’alba del Giorno dei Morti. Che quel 2 novembre 1975 cadeva di domenica. Quale giorno migliore per celebrare la propria morte, considerando che soltanto ogni sei anni la domenica coincide con quella particolare ricorrenza? Era pure domenica quando morì suo fratello Guido. Di domenica muoiono quasi tutti i protagonisti delle sue opere. L’aveva programmata, la sua morte, Pasolini? Ma certo che sì! Come dar torto a Giuseppe Zigaina – per dire di uno che lo conosceva bene. E che l’aveva studiato a fondo. Scriveva, in Hostia – Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini (Marsilio, 1995), il pittore friulano: «Sceglie non a caso [Pasolini] di farsi ammazzare a Ostia, dal latino hostia, che vuol dire vittima sacrificale. La particola che il sacerdote consacra durante la messa si sovrappone nella mente del lettore al nome della località laziale». E per quanto riguarda le ardite tesi complottistiche relativamente alla morte dell’amico, Zigaina le liquida come sciocchezze, convinto com’è che non ci sia nessun complotto dietro quella volutamente orribile mise en scene. Che la verità stia tutta lì, in un tempo prestabilito, architettato, sceneggiato, che «doveva succedere».

Che Zigaina parlasse con cognizione di causa è testimoniato da una amicizia quasi ossessiva, come riscontra un episodio relativo alle riprese del Decameron. Dopo aver voluto il suo amico friulano come collaboratore per le scenografie di Medea e Teorema, PPP s’era messo in testa che nel Decameron Zigaina dovesse interpretare il frate santo cui ser Ciappelletto confessa d’aver sputato in chiesa. «Mi chiamò costernato il produttore Franco Rossellini: “Ti prego, vieni immediatamente a Bolzano. Pier Paolo non vuol saperne di girare senza di te. Con la troupe ferma perdiamo 60 milioni al giorno”».

La prossima ricorrenza del 2 novembre scelto da PPP come unico giorno possibile per la chiusura del suo sipario sarà la numero 46 e in tutti questi anni, questi decenni, non è stato possibile rintracciare non dico un suo erede (che sarebbe blasfemo il solo pensarlo), ma nemmeno un suo emulo all’altezza dei suoi pensieri più minimi. Ché quello che manca oltremodo di lui non è né il cinema né i romanzi e forse neppure le poesie: sono i pensieri, i suoi pensieri corsari, a mancare. Personalmente, non ho mai amato granché nessuna di quelle sue forme d’arte. Quel che – personalmente – mi manca è la sua capacità di infilare il suo pensiero come una lama nei panetti di burro di un pensiero conformisticamente rivoltante anche quando voleva (pensava di) essere trasgressivo. Lui arrivava con la sua artiglieria e faceva terra bruciata delle banalità. (Oh quanto si sarebbe divertito a fustigare ad esempio il benaltrismo di quello là…), per non dire delle stilettate sulle caviglie dei vari maitre-a-penser che pascolano nel circo Barnum televisivo che sposta le sue tende da rete a rete mettendo in scena ora questo, ora quello, nella costante interruzione di una conduzione punteggiata dai Mastro Lindo pubblicitari. Mi manca la sua voce che – sottilmente (in tutti i sensi) – apriva dibattiti di livello (non infimi). Mi manca nonostante sia sempre stato – per tutto il periodo di quelle sue provocazioni che ci arrivavano gratis ma che ci formavano a nostra insaputa – un nostro nemico. Non avversario, nemico proprio. E qui, siamo già nell’agorà politica, da cui sgusciamo velocemente, per ritornarci più avanti. Per ora, stabiliamo di dare a Pasolini quel che è di Pasolini: nel bene ma, soprattutto, nel male. Un atto d’onestà troppo disatteso dalla maggior parte di quella intellighenzia di ieri e – peggio, perché ignava – di oggi, che lo incensa tout-court appiattendolo in un dimensione beatificatoria di maniera: manca solo d’avanzare una richiesta di canonizzazione (che, oltremodo prodigo di santi e beati, il santificio vaticanense potrebbe pure trovare sponda favorevole: non è stata proposta la candidatura di Luigi Calabresi? La promozione a beato del giudice Livatino è avvenuta nelle scorse settimane senza che la laicissima stampa italiana battesse, non dico un colpo, ma manco un buffetto). Ed ora, per un bizzarro loop d’associazione d’idee provocato da neuroni scostumati, mi scappa una digressione su una sorta di alter ego: no, non Moravia, né Citati, e manco Calvino, ma Leonardo Sciascia. Stimolato da una chiacchierata novecentesca per forma politica e contenuti letterari col direttore di questa testata, ho recuperato un intervento che ricordavo d’aver trovato interessante su La Lettura dal titolo coerente con questo argomento: “Più Sciascia meno Pasolini”. In questa provocazione – ma neppure tanto – Guido Vitiello sottolineava in buona sostanza quello spirito inquisitorio che attraversava (suo malgrado?) Pasolini (a causa della sua formazione paolina?). Talebanismo ideologico nei confronti di molti aspetti della vita nazionale non solo sempre assente in Sciascia, ma sempre fortemente avversato dall’intellettuale siciliano (che pure apprezzava per altro verso Pasolini). La laicità di Sciascia è manifesta, quasi ostinata, la religiosità di PPP è filigrana perfino del suo anticlericalismo. Sciascia è il cantore dello Stato laico, PPP il chierico di una religiosità da portarsi appresso come condanna, fino all’estrema crudeltà d’avere ai propri piedi la mamma (la madonna del Vangelo secondo Matteo) a piangere la propria – inevitabile – crocifissione. Muore – PPP, ucciso sulla croce di Ostia: su una spiaggia degradata di periferia – perché deve morire così, religiosamente. «Invocava la mamma» (testimonianza di alcuni) mentre moriva – infine – di quel male intimo, interno, vissuto per tutta la vita.

Muore, laicissimamente, Sciascia, nel suo letto, perché afflitto dal male, esterno, estraneo, presentatosi in forma di nefropatia da mieloma multiplo. Nel coro di voci che si alzano all’alba del Giorno dei morti, in morte di PPP, alcune stonano pure la sostanza oltre che la forma (vedi, una su tutte, per forma e sostanza, quella di Carmelo Bene). Di quelle che si levano per Sciascia, non una va fuori tempo nel “riconoscimento” politico-artistico di una dimensione espressiva che non poteva essere dicotomizzata senza offendere la verità (dicotomia invece assai riconoscibile in PPP). Durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera, Sciascia è stato scrittore-politico più di qualsiasi altro uomo di lettere suo tempo contemporaneo: più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più di Alberto Moravia. E – scontatamente, come accennato – più di Pier Paolo Pasolini. In tutti gli scritti di Sciascia sono rintracciabili sostanze d’ordine politico in forma letteraria: dalle questioni etiche-sociali che riguardano la vita del paese e il governo della polis, ai rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura. Una filigrana talmente trasparente e riconoscibile nel suo cromatismo politico-artistico da essere spesso circoscritto (calmierato) in una orribile blindatura quale quella di “scrittore illuminista”. Forse per il suo riferimento non raro ai valori dell’Enciclopedia: quella originaria di Diderot e D’Alembert? (Che sciocchezza!). In realtà, un abbaglio formidabile dovuto forse al fatto di ritenere che sottolinearne la cifra politicità potesse inficiare quella letteraria.

Nel caso di Pasolini, si è dovuto pescare nel torbido di Petrolio per rintracciare tracce di melma politica capaci di appiccicarlo a un futuro di morte: cioè quei riferimenti a Cefis e alla malaItalia puzzolente di petrolio che l’avrebbero condotto fino al Lido di Ostia. (Che sciocchezza!). Se – per Sciascia – così fosse: se cioè, sottolinearne la cifra politica significa sminuirne quella letteraria e viceversa, si registrerebbe uno strabismo evidente, giacché, in lui, qualità politiche e artistiche corrono parallelamente perché parallelamente si alimentano dello stesso impegno. Esempio illuminante nel segno di questo abbaglio, quello di Piero Citati che, pur dando a Sciascia quel che è di Sciascia sul piano della qualità letteraria, aveva scritto che dalla sua opera sarebbe stato bene cancellare «l’ultimo Sciascia allo stesso modo del primo Calvino». Perché mai? Per un’esposizione politica arrivata fino ai banchi del Parlamento? Ma, caro Citati, dove inizia l’ultimo Sciascia? Forse dove prende abbrivio L’Affaire Moro? O dobbiamo indietreggiare fino a Il Contesto? E perché non fino a Todo Modo e a Candido? E, comunque, tutte opere posizionabili sullo stesso piano politico-artistico, che qualsiasi livella creata ad hoc registrerebbe.

Nelle opere di PPP, quella livella è inapplicabile (Totò s’è scordato di lasciargliene una dopo Uccellacci e uccellini) e la cifra politica va staccata da quella artistica perché possa essere riconosciuta in tutta la sua filigrana reazionaria. Non a caso, il mondo che attira la sua attenzione per tutta la vita è quello conosciuto nelle campagne del Friuli e replicato nelle borgate romane: quello di un sottoproletariato incapace di percepirsi diversamente da quello che è: vale a dire, soggetto incapace di pensarsi come Classe che agisce nella Storia. Quello di PPP è un sottoproletariato senza coscienza né onore: la borgata sta sotto le suole delle sue scarpe rotte e nella sua testa. Un popolo – quello delle borgate romane – che PPP amava, perché riverberava la dimensione di subalternità, di umiltà contadina (da cui il suo grido di dolore per la progressiva perdita della stessa a favore di un passaggio a quella Classe che avrebbe fatto sfiorire il candore profumato di letame di vacca). PPP ama il povero in quanto tale: in lui, riconosce costantemente – tutte le volte che con essi si congiunge (vedi Il Pratone in Petrolio) – quella bellezza che va preservata dai colpi della modernità (del consumismo), tenendola ben distante dai profumi (olezzi) di Upim e Standa. Le unghie sporche come la biancheria sono – al contrario – segno perfino olfattivo della sopravvivenza di quel mondo contadino che lo aveva sedotto nelle prime esperienze sessuali in Friuli. L’impossibile marxismo di PPP è quindi rintracciabile nel suo desiderio di coniugare l’estetica della bellezza del brutto e sporco con l’etica di un valore da salvaguardare: quello su cui è sempre germogliato il candore contadino. Un mondo traviato dalla televisione, le automobili, le canzonette di Sanremo, mentre si sgretola la lingua dei padri, cioè i dialetti nel segno del consumo per il consumo, cioè, il Male assoluto: altro che nazismo. Non a caso, per i “gerarchi” della Democrazia cristiana, PPP invoca una nuova Norimberga, ma non metaforica, vera, autentica, con tanto di capi d’accusa da rinfacciare agli imputati ristretti con gli schiavettoni dietro le gabbie (modello maxi processo alla mafia, insomma). Per dirla con Sanguineti: «Pasolini, qualunque intenzione potesse avere, collaborava volente o nolente con le posizioni conservatrici. Era un radicale nostalgico che si riconosceva in quel socialismo reazionario di cui parlava Marx».

Se non fossi passibile di blasfemia e non ne temessi l’ossimoro, potrei parlare di un anarchismo reazionario di PPP. Difficile collocarlo infatti nell’ultimo arco della sua vita, sia politicamente sia artisticamente. È per questo che “risolve” la sua vita eticamente ed esteticamente (quindi politicamente) con una sorta di suicidio assistito. Da chi? Ma da quel ragazzo che, partendo dalla natia Bologna al seguito di quella madonna di sua madre, aveva raggiunto il Friuli, e lì aveva conosciuto l’amore e la politica. Cioè, il sesso coi giovani contadini friulani e la – difficile – militanza nelle ottuse sezioni del Pci. Era stato questo a generare un corto circuito irrimediabile per la sua esistenza? Non resta che discuterne.

Pino Casamassima

Un pensiero su “Fra PPP e Sciascia, poi il nulla

  1. il più bell’articolo su Pasolini che abbia mai letto. Adoro Caravaggio (mi ha fulminato quando studiavo storia dell’arte). Sciascia è lo scrittore italiano che preferisco. qui però Pasolini è stato messo perfettamente a fuoco. Sciascia idem. questo articolo andrebbe fatto leggere nelle scuole ed anche (sopratutto?) a tutti quelli che nominano a sproposito tanto PPP quanto Sciascia : prima che di loro rimangano solo due santini finti.

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