La scomparsa del lavoro

Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dal perdurante e purtroppo infondato predominio concettuale dell’ideologia del lavoro, la finalità politica del pieno impiego e le strutture fondamentali della società salariale sono state smentite dall’istituzione del precariato peraltro regolamentato con leggi dello stato, portando di conseguenza ad una notevole diminuzione del potere del lavoro, della produzione e del profitto allo sviluppo della società in generale.

La società basata sul lavoro è entrata in contraddizione con se stessa ed il lavoro è diventato l’unico sconfitto con l’affermarsi nelle società capitalistiche, tramite la globalizzazione e il neoliberismo, di  nuovi sistemi di sfruttamento in cui lo svolgimento del processo produttivo implica la disintegrazione sociale della forza lavoro. Se da una parte i processi di precarizzazione hanno svalutato e contraddetto  il ruolo centrale attribuito formalmente al lavoro, che gli si continuava a riconoscere sul piano dei diritti costituzionali, dall’altra i processi di finanziarizzazione hanno svuotato di ogni significato la produzione reale e con essa anche l’apporto che il lavoro poteva offrire alla creazione di ricchezza.

Il passaggio a politiche di workfare (modello alternativo al classico stato sociale che condiziona gli aiuti sociali all’obbligo di lavorare per coloro che ne beneficiano), con un obbligo particolarmente cogente ad accettare le offerte di lavoro in cambio di sussidi di disoccupazione sempre meno consistenti, ha rappresentato la contraddizione assoluta all’idea di piena occupazione, di conseguenza la stessa demolizione dello stato sociale non è altro che una lunga parabola discendente del lavoro.  I cambiamenti intervenuti nei rapporti di produzione hanno inciso sullo stato sociale, cosi come la tendenza alla privatizzazione dei servizi e degli strumenti di tutela, ciò ha determinato una rimodulazione del significato del welfare nazionale, rappresentando inoltre un allontanamento dal dettato costituzionale.

Se tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, cosi come sancisce l’art.3 della Costituzione, non c’è alcuna dignità sociale nello sfruttamento del lavoro precario perché non c’è alcuna possibilità di poter programmare un futuro dignitoso per il lavoratore, pertanto il principio costituzionalmente garantito della dignità sociale risulta violato.

Se la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto, cosi come prevede l’art.4 della Costituzione, non c’è alcun diritto al lavoro garantito nello svolgimento di un lavoro precario, bensì esclusivamente sfruttamento che non concorre al progresso materiale o spirituale della società, pertanto il principio costituzionalmente riconosciuto del diritto al lavoro rimane inapplicato.

È necessario tornare al concetto, ormai abbandonato, del pieno impiego per tutti i cittadini della Repubblica, semplicemente applicando ciò che già prevede la Costituzione ovvero il diritto al lavoro con il ripristino dei contratti a tempo indeterminato, l’abolizione di tutte le forme istituzionalizzate di precariato, la riformulazione e rivalutazione del d.lgs. n°468/1997 (Lavori socialmente utili), la reintroduzione nell’ordinamento giuridico dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) che tutelava i lavoratori dipendenti in caso di licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio.

Dobbiamo ripartire da una nuova idea di lavoro, come fare-comune per un bene comune, in cui l’opera umana sia una libera scelta quale libera attività, il lavoro come impegno civile deve diventare la contrapposizione allo sfruttamento, al ricatto, alla sopravvivenza, alla coercizione.

Gianfrancesco Caputo

(In copertina: Hernan Chavar, Quinto Stato)

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