
Nella poesia di Nicola Vacca ci si inoltra come in una città deserta, resa vuota e silenziosa dalla necessità che ha il poeta di ascoltare qualcosa che nessuno vuole davvero sentire: è questa la prima impressione che riceve il lettore quando apre la sua ultima raccolta di versi, Non dare la corda ai giocattoli, in sette sezioni, edita da Marco Saya.
È chiaro sin dall’inizio lo stretto legame tra la poesia e il luogo, che qui si manifesta come la concretizzazione di uno stato d’animo, di un’idea, una sensazione.
Di città buie dentro stazioni vuote apre l’opera e scaraventa immediatamente chi legge nel primo non-luogo della raccolta.
“Un controcanto di pretesti/ si mangia le ore di occasioni perse./ Attendere anzitempo nelle stazioni vuote/ quando non c’è l’ombra di un treno” scrive Nicola Vacca, evocando sin da ora l’immagine di una realtà grigia o comunque dai colori spenti dall’azione crudele, ma necessaria, di un’incessante pioggia interiore.
Il senso della perdita si fa strada già da qui, si plasma in un luogo spogliato della sua abituale funzione: l’attesa, che comunemente è elemento accessorio rispetto alla partenza e quindi all’arrivo del treno, diviene in questo caso la desolante protagonista. Il tempo stesso perde la sua direzione e quindi è sperimentato in maniera diretta e crudele, appunto come perdita.
Nicola Vacca continua a costruire la sua topografia dell’assenza anche nelle poesie immediatamente successive.
“Non luoghi infiniti/ gabbie dorate di illusioni/ dove estranei si sfiorano/ senza toccarsi l’anima” si legge in Il grado zero della solitudine nei centri commerciali. È qui, nell’assenza di contatto realmente umano, che si individua la fonte dello straniamento generato dai luoghi.
Il concetto viene ripreso nella poesia In una sala d’aspetto, dove il poeta scrive: “mi benedice il chiacchiericcio/ di chi sta comodamente in poltrona./ Inganna l’attesa/ senza chiedere perdono/ al veleno che esce dalla bocca/ e uccide la vita insieme alla poesia.”
Il poeta si confronta – qui come in altri punti dell’opera – con un’umanità anch’essa in attesa, ma che si tiene impegnata solo a ingannarla, affogando nell’apparenza quanto c’è di più autentico. È quell’umanità che si perde in “alveari di indifferenza”, che non sa abitare il posto perfetto che “è sul mare” perché non vuole affrontare “il rischio di annegare”: non è questa umanità che il poeta cerca, come un novello Diogene armato di lanternino.
Di qui il profondo senso di mancanza che si cristallizza nei luoghi.
Proseguendo nella lettura della raccolta si attraversano, infatti, parchi, bar, negozi, strade e altre terre di nessuno, dove, a prescindere dalla presenza umana, il senso di desolazione regna sovrano. “Noi camminiamo nell’inferno/ calpestando i fiori” scrive Nicola Vacca in Nota per un’architettura di vuoti; non stupisce, quindi, che la cartina topografica che regala al lettore sia proprio quella di un inferno in terra, dove ogni cosa bella è devastata da un’umanità cieca e ottusa. Sulla carta sono segnati i punti dove manca l’umano.
Non voler vedere il mondo per come è: è questa l’accusa che si può muovere alle donne e agli uomini di oggi. Di qui le taglienti parole della poesia che dà il titolo all’opera: “Per rifare il mondo/ serve una dose massiccia di realtà./ Oltre tutte le porte che attraversiamo/ si finisce sempre nell’inganno del sogno./ Aprire gli occhi/ abbandonarsi all’errore/ trovare quella ragione per guardare in faccia i crolli.”
È un’invocazione, un appello al disincanto – non a caso, Mattanza dell’incanto è il titolo di un’altra opera di Nicola Vacca, pubblicata nel 2013 – è un invito senza inutili giri di parole a guardare la devastazione che ci circonda. A ciascuno deve venire in mente “di essere una ferita” per poter rifare il mondo.
Alla poesia – quella vera, non quella dei cortigiani! – il compito di aprire gli occhi e far crollare le illusioni, impedire che ci si affidi al sogno “che ci dà il colpo di grazia”.
Quasi a indicare un proprio alter ego pittorico, le poesie della sezione centrale, la quarta, rimandano ad alcuni dei quadri di Edward Hopper, che delineano nella mente del lettore, con chiarezza ancora maggiore, la forma di quei luoghi vuoti e desolati che si trovano evocati prima e dopo nella raccolta.
Con il riferimento al pittore, le immagini disegnate con le parole si fanno ancora più dure e nitide, i versi colpiscono, e ogni colpo è una ferita profonda nello strato di illusioni che ogni giorno i venditori di giocattoli si divertono ad alimentare.
Si badi bene, però, che mostrare impietosamente la devastazione che ci circonda come umanità, per Nicola Vacca, non equivale assolutamente a una rassegnazione di fronte a uno stato di cose ritenuto immutabile. Al contrario, spogliare il mondo della sua veste di menzogna vuol dire consegnarlo rinnovato alle possibilità che solo un’umanità disincantata potrà cogliere.
Angela Nese
Un pensiero su “Topografia dell’assenza”