Nella società delle ricette pronte per ogni occasione e delle soluzioni facili a portata di click qualcuno dovrà pur dare la triste notizia: non ci sono formule per essere uno scrittore, non ci sono procedimenti chiari e ben sterilizzati da descrivere e da apprendere.
Lo scrittore è la morte di tutte le “regole per…”: cinque regole per avere successo, sette regole per vendere il tuo libro, undici regole per essere famoso. Non basta scrivere dieci, cento o mille pagine al giorno: i numeri non c’entrano.
Non basta la soddisfazione di fine giornata: non conta la produttività.
Lo scrittore non è un impiegato, è piuttosto uno che si è smarrito e lascia tracce d’inchiostro lungo il suo cammino. Scrivere è lasciare indizi per sé e per gli altri, indizi per capire dove ci si trova, che razza di strada si sta percorrendo.
Il senso dello scrivere è forse proprio il vagare alla ricerca di un senso. Nessuno scrittore è mai arrivato alla fine del cammino, le tracce non sono mai un percorso che porti in qualche luogo. Non fidatevi, traditele. Come Zarathustra, lo scrittore sa della necessità del tradimento.
Puoi capire, quindi avere fugaci intuizioni, ma se scrivi devi rassegnarti all’incompiutezza. Il punto non lo metterai mai, come non l’hanno messo quelli prima di te.
Lo scrittore sa di essere un nessuno, sa che non arriverà mai da nessuna parte, eppure non può fare a meno di tracciare strade, disperatamente.
La presunzione non è dello scrittore, che sa vedere solo il vuoto davanti e mai le tracce lasciate dietro. Il tormento – quello sì! – è dello scrittore, che non riposa mai: la sua coscienza soffre d’insonnia. Come Socrate – che a differenza sua non ha lasciato tracce scritte – sente il pungolo nella carne, il tarlo che non tace mai e lo costringe ad agitarsi, a camminare alla ricerca di qualcosa che sa irraggiungibile.
È tutto qui il dramma: sa, con lucida, crudele consapevolezza, che non troverà mai nulla di definitivo, eppure si mette in cammino. Cerca, fruga, scava fino a veder sanguinare le mani, respira polvere… e accumula parole, in versi, in prosa. Se le butta alle spalle quelle parole e, quando le guarda, gli sembrano già insufficienti testimonianze del suo lavoro di caccia. Perché in fondo lo scrittore non fa altro che dare la caccia alla realtà, spara, scaglia la freccia e, quando si avvicina, trova solo il cadavere del reale.
Così è costretto a riprendere la sua marcia, di fallimento in fallimento, ma lo scrittore, proprio perché tale, è condannato a non potersi mai fermare… È un Sisifo qualunque, un Tantalo che non troverà mai soddisfazione…
La sua coscienza è insonne. Lo scrittore è condannato a non riposare mai, neppure quando dorme: anche di notte la nuda realtà gli si para davanti sotto forma di sogno e lo sfida ad afferrarla.
La si può descrivere in quindici, venti o centocinquanta regole questa maledetta insonnia della coscienza?
Angela Nese