Zero posti. Una favola contemporanea

naso-lungo

Nella storia della matematica e, più in generale nello sviluppo del pensiero, pochi concetti sono affascinanti quanto lo “zero”, che secondo molti matematici è da considerarsi il primo dei numeri, e che pertanto precederebbe nell’ordine perfino il temibilissimo uno. Lo zero sul piano semantico è il segno che nulla indica o, per meglio dire, indica il nulla. Cosa significa zero? Nulla.

Sembra che la civiltà Maya, che associava i cicli numerici a specifiche divinità garanti degli ordinamenti celesti, utilizzasse un simbolo simile a una conchiglia vuota per rappresentare lo zero, cosicché anche la divinità più sfortunata poteva vantarsi di portare su di sé qualcosa.

La grande civiltà indiana, la prima a considerare lo zero non solo una cifra ma anche un numero, lo indicava con un punto che corrispondeva, allo stesso tempo, all’incognita. Tra i nomi con cui gli indiani chiamavano lo zero si annoverava anche il termine pujyam, “divino”, segno di una tensione verso la trascendenza e il nirvana, il nulla assoluto che, come è noto, è la salvezza ed il fine ultimo dell’esistenza.

Nel 2016, molti anni dopo i tentativi di razionalizzare il numero da parte dei babilonesi, dei Maya, degli indiani, degli arabi, di Frege e di Russell, il numero zero è tornato di moda nel cosiddetto “concorsone” della scuola.

Ho partecipato al concorso con determinazione e disincanto, conscio dell’assurdità di un sistema di reclutamento che ha gravemente penalizzato chi, come me, un’abilitazione all’insegnamento l’aveva già guadagnata con fatica e sacrifici (anche economici), non consentendogli di essere inserito in quei piani di assunzione che hanno garantito, tra mille storture, stabilità e lavoro a migliaia di docenti fino ad allora “precari”.

Ora mi trovo nella condizione di aver superato, non so se per merito o per fortuna, o per entrambi i fattori, il concorso 2016. Quindi, a rigor di logica, dovrei aver messo al tappeto la precarietà, il mostro sacro della scuola, e come i colleghi assunti dalle GAE dovrei avere diritto ad una cattedra stabile, che significa sicurezza, riconoscimento immediato e incontestabile della professionalità acquisita. Sbagliato. Per la mia classe di concorso, in Puglia, i posti sono pari a zero. La conchiglia dei Maya? Il segno intriso di divinità degli induisti? Sicuramente, se accosto l’orecchio al mondo della scuola, sento l’eco dell’ingiustizia. Percepisco anche l’annullamento del merito, un nirvana paradossale e beffardo.

Perchè “zero posti”, se abbiamo superato un concorso (siamo in trentasette)? La spiegazione: perché il MIUR, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nella persona del Ministro Giannini, ha concesso per decreto la possibilità a migliaia di insegnanti di tornare dal Nord verso il Sud, occupando così, in maniera scriteriata, i posti banditi a concorso. Senza alcuna riserva per i vincitori. Parliamo della totalità dei posti, parliamo della ennesima misura “straordinaria” italiana e non solo per la mia classe di merito. Parliamo di tutte le regioni meridionali. Parliamo di un concorso, il mio, su base rigidamente regionale. I posti sono stati ritagliati qui e non altrove. E, da bando, erano stati ritagliati per noi. Scritti nero su bianco.

Certo, a sentire i dirigenti del MIUR e la ministra stessa, le cattedre vedranno la luce il prossimo anno e l’altro ancora. Un parto ritardato. Ma chi ci garantisce che i posti ci saranno? E per quale motivo dobbiamo attendere un anno, a differenza di nostri colleghi più fortunati? Nessuno conosce i numeri dei pensionamenti, e anche a conoscerli, con queste riforme pensionistiche che cambiano dalla sera alla mattina… Galleggiamo nel mare magnum dell’impermanenza. Attendiamo gli eventi come si attende la grazia. Per chi ha la fede, almeno. Personalmente, mi sento defraudato e non vedo la luce della redenzione in fondo al tunnel. Passano i ministri, restano le riforme con i loro peccati.

Come potremmo connotare l’estetica della scuola del Ventunesimo secolo? E’ sufficiente mettere piede in un qualunque Ufficio Scolastico Regionale per capirlo. Appartamenti in fitto adattati ad uffici, corridoi come labirinti, stanze come attese del Purgatorio, luci perennemente accese, muri scrostati, arredamenti kitsch anni Settanta e divani sfondati. Un’estetica del disagio, uno stile che nella crepa e nella polvere trova la propria cifra stilistica.

Non escludo affatto che vi siano figure volenterose in questi uffici, dirigenti in grado, non dico di sbrogliare la matassa del senso di ciò che accade (è impossibile!), ma quantomeno di afferrare un capo del problema, una legge, un decreto, una circolare. Esisteranno pure, ma la professionalità è spesso occultata dietro il muro di cifre impenetrabili e ragioni non dichiarabili. La spiegazione si ferma a metà strada, lasciando spesso interdetti o sgomenti gli interlocutori. Nell’animo del dirigente, e a cascata in quello dei funzionari, nel migliore dei casi si forma la similitudo della vera sostanza delle cose, come affermavano gli Scolastici, un’intelligenza parziale senza alcuna possibilità di attingere alla Verità ultima, al Perchè, alla Causa. Questa la conosce solo il “Ministro” o il “Ministero”. Misticamente. Forse.

E un professore? Come è trattato un professore, soprattutto se di prima nomina, o sindacalmente debole? Azzardo: come un mezzo e non come un fine. Come un tappabuchi del sistema. Le ricadute sull’organizzazione scolastica sono facilmente immaginabili.

Ora, il concorso è stata una beffa, anche per chi lo ha superato e ha, come il sottoscritto, un’abilitazione conseguita mediante Tirocinio Formativo Attivo (TFA), che a tutti gli effetti è un concorso già fatto e finito, tranne per la legge, ovvero per il potere politico, ovvero, in particolar modo, per il Partito Democratico che ha avallato la tesi di fondo della gestione Gelmini, che nel suo decreto di istituzione dei TFA non incluse “il valore concorsuale” (a differenza delle vecchie SSIS). Due concorsi, quindi, e nessuna immissione in ruolo. Eravamo destinati ad attraversare le forche caudine di un concorso. Molti sono caduti, io sono rimasto in piedi, ma non vedo l’alba.

Il TFA non aveva valore concorsuale? Passiamo oltre. Ora un concorso “vero”, con tutti i crismi, con tanto di bando, prove, selezioni, punteggi ecc.ecc. l’ho fatto e presumibilmente l’ho vinto. Dico presumibilmente, perchè alla data di oggi mancano le graduatorie di merito, nonostante la Commissione di concorso abbia da tempo trasmesso gli atti all’USR. Incomunicabilità a la Antonioni? Errori di comunicazione come postula Habermas? Chissà. Come me, altre trentasei persone, qualificate, in grado di gestire una classe e orientare gli studenti all’acquisizione di competenze e conoscenze, condividono la mia stessa sorte. Abbiamo un diritto, quello al ruolo, che ci è negato. Abbiamo un merito che non ci è riconosciuto. Ma il governo Renzi, mi chiedo ancora una volta, non doveva essere il governo, prima e principalmente, del merito? Pare di no. I fatti dicono il contrario. Non abbiamo più l’età per credere alle favole.

Il perno attorno al quale ruota tutto il problema, in fondo, è proprio questo: che fine ha fatto il merito? C’è il dubbio che non ci si intenda sul significato e sul senso di “merito”. Chi merita cosa e perché? Qui si cela il grande inganno: il diritto scaturito dal superamento di un concorso pubblico è figlio dei principi costituzionali, ma nel momento in cui è giocato sul tavolo della propaganda è svuotato di senso. La politica non vuole ri-costituire una pubblica amministrazione sull’architrave delle competenze, vuole, piuttosto, garantirsi il potere sbandierando numeri che nascondono situazioni paradossali e intrinecamente ingiuste.

Chiudo, appunto, ricordando l’articolo 97 della Costituzione Italiana, ultimo capoverso: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Che bella, la Costituzione italiana. Non è scritta nel linguaggio dei Sumeri o dei Maya, è chiarissima. Non credo proprio che a Novembre o Dicembre voterò per cambiarla. Preferirei prima modificare altro. Una classe politica che maschera dietro la retorica il propria nulla (eccolo, di nuovo!), un sindacato connivente che vale zero (come i nostri posti!) per i soggetti che andrebbero davvero tutelati, una pubblica amministrazione che poggia su una generazione oramai prossima alla pensione, stanca, infiacchita, largamente inefficiente.

Emil Cioran, ne L’inconveniente di essere nati, ribalta in un aforisma bruciante l’immagine del cosmo cara a Talete. Per rispetto dell’evidenza, dovremmo dire che “tutto è vuoto di dèi”. Così, per risollevarci dal livello zero dobbiamo essere consapevoli del deserto etico e politico che ci circonda. La coscienza non sana le ingiustizie, ma il fuoco delle parole può far deflgrare una protesta. La resa, per me, per noi, non è nemmeno contemplata.

Alessandro Vergari

2 pensieri su “Zero posti. Una favola contemporanea

  1. “Attendiamo gli eventi come si attende la grazia”, mi piace moltissimo questa frase e capisco il tuo sconforto. Ho un’esperienza differente ma ti capisco. Mi dispiace molto davvero e fai bene ad usare il termine defraudato, ci sta tutto e non è giusto. Non posso aiutarti ma ti sono vicino con tutta la mia indignazione per la realtà che viviamo.

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