Annie Ernaux è una scrittrice con il dono della domanda. Non sempre domandare è facile, non sempre è un’operazione cui si acconsente, soprattutto se la questione verte sulla propria identità, su quel sordo spleen che accompagna i più accorti di noi e che verte sul senso della propria presenza nel mondo, sul perché essere vivi e non già in compagnia dei morti, sull’essere nati e per quale motivo, sempre che un motivo ci sia. Possiamo prendere la vita come mera attestazione biologica, il qui-e-ora dovuto ad una coincidenza casuale di processi corporei, sangue, secrezioni, liquidi, ormoni che hanno spinto alla procreazione e propagato la specie impersonandola casualmente in noi, semplice esemplare tra tanti, oppure possiamo scegliere la strada opposta, la ricerca di una verità forse non scientifica, non rintracciabile in prove empiriche, ma donatrice di scopo, di logica, di prospettiva. Quindi essenziale. Per resistere alle prove del tempo. Per andare avanti.
È un libro autobiografico semplice, appassionato e ridondante, ossessivo perchè ossessionato, come tutti i libri della Ernaux, nella forma di una lettera impossibile indirizzata a una persona mai conosciuta eppure così presente, sempre, nella vita dell’autrice. Il punto di partenza è un’epifania involontaria, un’incursione non voluta in un parlottio, dialogo quasi bisbigliato e ascoltato di soppiatto all’età di dieci anni dietro la drogheria di famiglia, luogo intimo che da quel momento avrebbe nascosto in sé un buco nero. È la madre, «immersa da non so quanto tempo in una conversazione con una giovane donna di Le Havre», che parla a bassa voce e rivela di aver avuto un’altra figlia, prima di Annie, morta di difterite nel 1938. L’autrice sarebbe nata solo due anni dopo la scomparsa della sorella.
Annie ascolta le due donne parlare, facendo finta di nulla, suggellando così un patto tacito di reciproca omertà che sarebbe durato per tutta la vita. Sono parole difficili per una bambina di dieci anni, frasi che graffiano l’anima come uno scalpellino incide la pietra.
«È morta come una piccola santa». Ginette, morta a sei anni, rubata all’infanzia, messa sotto la campana di vetro dell’eternità, sottratta al peccato. Icona di una perfezione tanto inesistente quanto vera.
«Mio marito è diventato matto». Padre che perde la grazia del sorriso e transita dalla giovinezza alla maturità nel segno di un’afflizione incellabile. L’unico padre che Annie avrebbe conosciuto è questo, il secondo, non il primo, perduto nel gorgo del dolore e mai più risalito alla superficie.
«Non è come perdere il proprio uomo». Evento unico, appartenente all’orizzonte dell’idiografico, del fuori norma, dell’assoluto incalcolabile.
«Era più buona di quella lì». Più buona di Annie, bambina discola e impertinente. Il solco, la differenza tra sé e la sorella, è segnato. È una linea di demarcazione che è anche linea d’ombra, gerarchia di preferenze, di valori, di percezioni.
La morte di Ginette è evento che risalta e assume valore nell’economia di un’intera esistenza, quella della sorella. La tragedia è decifrata. Tutto il male che Annie ha solo sfiorato o sorpassato, è compensato da un fatto storico. Incidenti domestici, malattie, un’infezione di tetano che, generalmente, non lascia scampo. Annie, allora bambina di cinque anni, sopravvive e cerca una risposta. La riflessione che leggiamo ne L’altra figlia è questa verità innalzata a consapevolezza. La ragione del miracolo e, più in generale, significato e cifra di esperienze vissute nell’arco di una vita, riposa sul sacrificio altrui. La sorte dell’una è scudo dell’altra, è riscatto e legame mistico. Due storie che si intersecano su un piano magico, immaginario, eppure palpabile, evidente all’autrice.
Solo nella memoria il tempo diviene intellegibile, afferrabile, componibile in quadri dove anche le sensazioni più sottili e infinitesime trovano dimora e collocazione. La comprensione passa dalla rielaborazione dei ricordi, la trama familiare si illumina.
«L’ordine dei due racconti, il mio e il tuo, è invertito rispetto al cammino del tempo, va a ritroso. È un ordine nel quale ho rischiato di morire prima che tu fossi morta. Ne sono sicura: quella domenica d’estate del 1950, quando sento il racconto della tua morte, non immagino, mi ricordo. Vedo, senz’altro con maggiore precisione rispetto a ora, la camera di Lillebonne, il loro letto parallelo alla finestra, il mio, lì accanto, in legno di rosa. TI VEDO SDRAIATA AL MIO POSTO E SONO IO A MORIRE».
Annie Ernaux appartiene a quella schiera di autori che, anziché costruire personaggi, si lasciano scrivere e ri-comporre dalla stessa materia che narrano. Scrittori che lottano con e contro il linguaggio, corpo a corpo, sillaba dopo sillaba, per strappare una cifra di verità su se stessi, per sfrondare il proprio destino dai rami pendenti dell’interdetto e del proibito. Linguaggio che è innanzitutto esercizio di scavo nei recessi della storia, personale e sociale.
Un autore importante che, per stile e vocazione, si inserisce in questa famiglia di letterati, W.G. Sebald, chiude il primo racconto contenuto nel grande romanzo Gli emigrati (Adelphi, 2007), dedicato al dottor Herny Selwyn, in questo modo: «È così dunque che ritornano, i morti. Talvolta dopo oltre settant’anni riaffiorano dal ghiaccio e sono lì distesi ai margini della morena, un mucchietto di ossa polite e un paio di scarpe chiodate».
La morte è un porto sepolto. Annie Ernaux è consapevole che anche il più piccolo tentativo di smuovere i detriti può essere destabilizzante. Questo perché la sorella è «fuori dal linguaggio dei sentimenti e delle emozioni», essendo stata afferrata da un gioco narrativo che l’ha esclusa dalla sua comprensione, oltre l’orizzonte di ciò che avrebbe dovuto sapere, seppellita a pochi metri dal padre eppure nascosta, inaccessibile come un tabù, innominabile ma svelata nel suo essere paradossale, pietra incistata nella dura terra, tomba visibile e non vista. Ginette è il rimosso sempre presente, la parte non emersa dell’iceberg che, pure, lo tiene a galla. E’ un cuneo nella coscienza, una fessura che non si può chiudere se non affidandosi al filo della letteratura, sutura di contenuti non dati.
«La tua esistenza passa solo attraverso l’impronta che hai lasciato sulla mia. Scriverti non è altro che fare il giro della tua assenza. Descrivere l’eredità d’assenza. Sei una forma vuota che è impossibile riempire di scrittura». Così scrive Annie alla sorella. Dura dichiarazione d’amore, forse la più pura che si possa immaginare.
Vi è un romanzo francese contemporaneo – di cristallina bellezza e altrettanto dolente – accostabile a L’altra figlia, ed è Dora Bruder di Patrick Modiano. Il punto in comune delle due opere è il movimento attorno al vuoto. Non un moto fine a se stesso, ma una mossa necessaria per ricavare bellezza da un punto cieco, quasi un passaggio zen, che consiste nel concentrarsi su ciò che non c’è per avvalorare ciò che c’è. Secondo un principio taoista, “le persone non possono girare le spalle all’ombra senza avere il sole sul ventre”. Così, la scomparsa di Dora Bruder e la morte di Ginette Ernaux sono punti di fuga, principi di oscurità sottesi alla ricezione della luce del vero. Tuttavia, si è scartavetrati da una parte e dall’altra, dal ricordo impossibile e dal tentativo di costruire un’impalcatura di senso. Il gesto letterario è il precipitato di questa posizione precaria. Ciò che resta.
«Ma tu e io eravamo destinate a restare uniche. La loro determinazione ad avere un solo figlio, manifestata nella frase non potremmo fare per due ciò che potremmo fare per una, implicava la tua vita o la mia, non entrambe». Escludendosi a vicenda, le sorelle si implicano per sempre. Inseparabili nella separazione.
Il recupero della memoria si intreccia, inevitabilmente, con la tecnica che la rende possibile. L’inseguimento del phàntasma si avvale, nel corso degli anni, di foto raffiguranti Ginette con i genitori, affiorate per caso. Tuttavia, la scrittrice non accetta di mostrare la sorella nel libro (mentre sono pubblicate due foto, una di Rue de L’École, luogo della “rivelazione” nel 1950, un’altra del bar drogheria dei genitori a Lillebonne, sua città natale). L’unica immagine che Annie Ernaux avrebbe voluto portare a conoscenza dei lettori, andata perduta, è aderente non alla realtà ma al suo immaginario, «una foto d’arte ritoccata… la tua foto da santa». Vi è in questa dichiarazione una doppia negazione: ciò che si potrebbe mostrare non c’è (più), c’è solo ciò che non si può assolutamente mostrare (le foto “vere”, quelle con i genitori). Un’operazione di occultamento che si inserisce nell’importante questione del rapporto tra immagini e disagio della civiltà, come lo tematizza lo storico dell’arte e filosofo Didi-Hubermann, secondo il quale “bisognerebbe imparare a guardare le immagini, imparare ciò cui esse sono sopravvissute”. Ogni sguardo, in altri termini, è situato e mai gratuito. Non tutto può essere mostrato. Nel caso di Ginette, solo una simulazione, un ritocco artistico, avrebbe reso sostenibile l’esposizione al pubblico di un ricordo privato. Il pudore qui è il sentimento di una legge, quella della mediazione indispensabile tra sé e il mondo dei lettori.
«Non vivevo nel loro dolore. Vivevo nella tua assenza». Annie Ernaux, inseguendo un’ombra, ha scardinato il lato oscuro del proprio disagio. Le siamo grati, per averne scritto con grazia e profondità.
Alessandro Vergari